Esiste uno sguardo ebraico nella fotografia contemporanea? Un modo specifico di guardare, che porti con sé la memoria della diaspora, dell’esilio, del nascondimento?
Robert Frank, Diane Arbus, William Klein, Richard Avedon, Weegee (Ascher Fellig), Helmut Newton, Man Ray..: ciascuno con uno stile inconfondibile, nessuno riducibile a una scuola o a una poetica condivisa, eppure uniti da una condizione liminale, da un’origine comune che affiora, carsica, nella grammatica visiva di ciascuno. Non si tratta di biografia, ma di postura: uno sguardo che nasce da una tensione, da una frattura, da un’eredità che non può essere né pienamente posseduta né definitivamente rimossa.
L’ebraismo, nella sua tradizione più profonda, ha sempre diffidato dell’immagine: l’aniconismo biblico non vieta solo l’idolo, ma interroga ogni atto di rappresentazione. Eppure, proprio da questa diffidenza sorge, paradossalmente, un impulso visivo potente, ambiguo, spesso spiazzante. Come se lo sguardo ebraico, costretto per secoli a concentrarsi sulla parola, avesse interiorizzato una capacità unica di vedere ciò che sfugge, ciò che non si mostra, ciò che è “hester panim”, nascondimento del volto.
William Klein incarna con chiarezza questa ambiguità. La sua fotografia è tutto fuorché armonica: è rumore visivo, collisione con l’urbano, caos iconico. Ma è anche una teologia negativa dell’immagine: l’atto di scattare diventa interrogazione, dissacrazione, apertura. Klein stesso parlava della fotografia ebraica come di un atto famelico, analitico, scomposto, contrapposto a quella gentile, placida, rassicurata. Come se l’occhio ebraico non potesse semplicemente osservare, ma dovesse sempre anche decifrare.
È lo stesso scarto che ritroviamo in Weegee, che fotografa il crimine come si studia una porzione di Talmud con attenzione spietata per il dettaglio. O in Diane Arbus, che ritrae la marginalità con una pietas silenziosa e inquieta, quasi volesse restituire dignità all’invisibile, ai corpi fuori norma, agli scarti del mondo borghese.
O ancora in Richard Avedon, che esplora l’identità borghese americana smascherandola dall’interno, svelando crepe nel volto delle celebrità, e costruendo ritratti che sono midrash visivi: non riproduzioni, ma commentari iconici, soglie di senso.
Questa “estetica dell’altrove” non è un movimento né una scuola, ma una costellazione. Una galassia dispersa, ma animata da motivi comuni: il senso della dislocazione, la coscienza della perdita, il rifiuto dell’immagine totale.
Come scrive Levinas, “soltanto chi ha riconosciuto il D-o velato può esigere il disvelamento”: lo sguardo ebraico è uno sguardo interrotto, che cerca senza possedere, che testimonia il vuoto senza riempirlo. Per questo non rassicura: inquieta, sovverte, interpella.
Nel volto fotografato, come nel volto dell’Altro levinasiano, risuona un’eco etica. L’immagine non è mai innocente. È un luogo di responsabilità. E il fotografo, in questa prospettiva, non è solo un artista, ma una figura “liturgica”, chiamata a testimoniare il non visibile attraverso la materia luminosa dell’inquadratura.
Forse è questo, in fondo, lo “sguardo ebraico”: non un modo di fotografare, ma un modo di restare fedeli al vuoto che ci abita, e che ci chiama a vedere.
Robert Frank, Diane Arbus, William Klein, Richard Avedon, Weegee (Ascher Fellig), Helmut Newton, Man Ray..: ciascuno con uno stile inconfondibile, nessuno riducibile a una scuola o a una poetica condivisa, eppure uniti da una condizione liminale, da un’origine comune che affiora, carsica, nella grammatica visiva di ciascuno. Non si tratta di biografia, ma di postura: uno sguardo che nasce da una tensione, da una frattura, da un’eredità che non può essere né pienamente posseduta né definitivamente rimossa.
L’ebraismo, nella sua tradizione più profonda, ha sempre diffidato dell’immagine: l’aniconismo biblico non vieta solo l’idolo, ma interroga ogni atto di rappresentazione. Eppure, proprio da questa diffidenza sorge, paradossalmente, un impulso visivo potente, ambiguo, spesso spiazzante. Come se lo sguardo ebraico, costretto per secoli a concentrarsi sulla parola, avesse interiorizzato una capacità unica di vedere ciò che sfugge, ciò che non si mostra, ciò che è “hester panim”, nascondimento del volto.
William Klein incarna con chiarezza questa ambiguità. La sua fotografia è tutto fuorché armonica: è rumore visivo, collisione con l’urbano, caos iconico. Ma è anche una teologia negativa dell’immagine: l’atto di scattare diventa interrogazione, dissacrazione, apertura. Klein stesso parlava della fotografia ebraica come di un atto famelico, analitico, scomposto, contrapposto a quella gentile, placida, rassicurata. Come se l’occhio ebraico non potesse semplicemente osservare, ma dovesse sempre anche decifrare.
È lo stesso scarto che ritroviamo in Weegee, che fotografa il crimine come si studia una porzione di Talmud con attenzione spietata per il dettaglio. O in Diane Arbus, che ritrae la marginalità con una pietas silenziosa e inquieta, quasi volesse restituire dignità all’invisibile, ai corpi fuori norma, agli scarti del mondo borghese.
O ancora in Richard Avedon, che esplora l’identità borghese americana smascherandola dall’interno, svelando crepe nel volto delle celebrità, e costruendo ritratti che sono midrash visivi: non riproduzioni, ma commentari iconici, soglie di senso.
Questa “estetica dell’altrove” non è un movimento né una scuola, ma una costellazione. Una galassia dispersa, ma animata da motivi comuni: il senso della dislocazione, la coscienza della perdita, il rifiuto dell’immagine totale.
Come scrive Levinas, “soltanto chi ha riconosciuto il D-o velato può esigere il disvelamento”: lo sguardo ebraico è uno sguardo interrotto, che cerca senza possedere, che testimonia il vuoto senza riempirlo. Per questo non rassicura: inquieta, sovverte, interpella.
Nel volto fotografato, come nel volto dell’Altro levinasiano, risuona un’eco etica. L’immagine non è mai innocente. È un luogo di responsabilità. E il fotografo, in questa prospettiva, non è solo un artista, ma una figura “liturgica”, chiamata a testimoniare il non visibile attraverso la materia luminosa dell’inquadratura.
Forse è questo, in fondo, lo “sguardo ebraico”: non un modo di fotografare, ma un modo di restare fedeli al vuoto che ci abita, e che ci chiama a vedere.
David Pacifici