Sansone (Shimshon) è forse il personaggio più “ellenico” di tutta la Torah. Eroe muscolare, solitario, passionale, dominato da forze interiori che lo eccedono, egli appare tragico fin da subito, prima ancora della caduta. A differenza degli altri Giudici, Sansone è già figura crepuscolare. Come Ercole, possiede una forza sovrumana ma non governa il proprio destino; come gli eroi tragici greci, è guidato da desideri, da vendetta, da orgoglio, e infine dalla hybris, quella tracotanza che per i Greci era preludio della rovina. È predestinato a vincere, ma strutturalmente incapace di salvarsi.
Anche la passione lo travolge: come Achille con Briseide, come Paride con Elena, anche Sansone cede. Dalila non è un personaggio mosso da amore né da vendetta, ma da denaro e potere. Eppure, conquista la sua fiducia. Il suo punto debole non è il campo di battaglia, ma l’intimità. Il corpo, il sonno, la parola sussurrata: lì risiede la sua vulnerabilità.
Uno degli elementi più “greci” del racconto è l’associazione tra cecità e verità. Come Edipo che si acceca per vedere sé stesso, anche Sansone perde la vista e, nel buio, riconosce chi è. È nella cecità che prepara il gesto finale, il compimento. Alla fine, prigioniero, schiavo, cieco, umiliato, Sansone muore portando con sé i suoi nemici, abbattendo le colonne del tempio di Dagon. È una morte solitaria, vendicativa, poetica: la chiusura di una tragedia. Muore da solo, consapevole, definitivo. E lì, proprio lì, ritrova la sua forza.
Questa prossimità alla sensibilità tragica ellenica, questa eco greca nel cuore della Scrittura, fa di Sansone una figura mitica sospesa tra Bibbia e tragedia, tra Torah e Attica. Tra i Giudici, egli occupa un posto singolare: Gedeone dialoga con D-o, Iefte giura, piange, si dispera; Sansone invece non parla quasi mai. E quando parla, le sue parole sono dure, materiali, funzionali all’azione. Non interpreta, non spiega: agisce.
E tuttavia, a differenza dell’eroe epico greco, la sua azione non è limpida, né pienamente leggibile. È opaca, discontinua, e culmina in un gesto finale che, pur risolutivo, resta enigmatico nel suo significato morale. Il lettore moderno, formato sulle categorie dell’epica classica, può essere tentato di leggere in lui un Ercole ebraico: forza, desiderio, vendetta. Io stesso lo sono stato.
Ma se fosse davvero un personaggio greco, il suo racconto seguirebbe un’altra logica: avremmo genealogie, epiteti, ampie descrizioni, una rappresentazione esplicita della morte.
L’epica greca mostra, espone, rende tutto visibile. La narrazione biblica nasconde, spezza, allude. È interiore.
La Torah non costruisce un eroe psicologico: crea una figura profonda, contraddittoria. Sansone nasce sotto un voto, è nazireo fin dal grembo materno, ma non interiorizza mai questa elezione. Il testo non ci dice se ama D-o, se lo teme, se lo comprende. La sua forza viene da D-o, ma Sansone non prega, non ringrazia, non chiede comprensione. È un eletto inconsapevole e in ciò sta la sua tragedia.
Nel celebre episodio finale, Sansone cieco e incatenato si rivolge per l’ultima volta a D-o: “Ricordati di me… dammi forza ancora una volta.” Poi tocca le colonne del tempio, lo fa crollare, e muore con i filistei. La scena è grandiosa, ma sobria. Nessun compianto, nessuna scena madre. Il testo non mostra nemmeno il momento della morte: si limita a dire che “morì con loro”, e che “giudicò Israele vent’anni”.
Tutto è detto nell’allusione. Tutto è profondo, mai pieno.
E qui, ancora una volta, la Torah rivela la propria natura: non solo opera letteraria, ma documento di rivelazione. Le azioni degli uomini, anche le più estreme, le più violente, non appartengono solo a loro. Si iscrivono in un orizzonte invisibile, verticale, divino.
Sansone non è l’uomo che decide. È l’uomo che compie. E se muore come un eroe, non muore come un greco. Muore come un mistero.
Nel raccontare Sansone, la Torah non imita la Grecia: la sfiora, la rispecchia, ne incontra l’ombra. È lì, nel punto di massimo contatto tra forza e rovina, tra cecità e verità, che il testo ebraico e la tragedia classica si incontrano. Per un istante, si guardano, e si riconoscono, nella figura di un uomo cieco che trova la verità proprio nel gesto che lo annienta.