Il nome Israele, in ebraico יִשְׂרָאֵל (Yisra’el), affonda le sue radici nella narrazione biblica, Genesi, dove Giacobbe, al culmine di una notte di lotta, dove rimarra ferito, con un essere enigmatico, (forse un angelo, forse manifestazione del divino), riceve un nuovo nome.
L’etimologia del termine coniuga il verbo “sar”, che evoca il contendere, il lottare, con “El”, uno dei Nomi di D-o. “Israele” può dunque essere reso come “colui che lotta con D-o” o, in un senso più profondo, “colui che persevera nel confronto con il divino”.
Nella tradizione rabbinica, questo nome non designa soltanto una persona, ma una condizione spirituale: quella di chi non rifugge il confronto con l’Assoluto, ma vi si espone, anche con fatica, anche nell’incertezza.
Israele è l’uomo che non abdica alla ricerca, che interroga D-o e se stesso, che si misura con la realtà nella tensione costante tra limite umano e aspirazione alla verità.
Nella mistica ebraica, Israele assume una valenza ancor più radicale: è il nome dell’anima che attraversa il frammento per tornare all’unità, che trasforma la lotta in ascesi.
Non c’è qui una pace statica, ma un movimento continuo, una dinamica di trasformazione interiore. Israele è colui che “abita la ferita” quella ferita che lo rende zoppo ma anche teso all’infinito, ma è anche il nome, di un popolo chiamato non alla perfezione, ma alla fedeltà inquieta di chi, anche nel silenzio di D-o, continua a chiamarlo.
David Pacifici