In ebraico SHALOM שָׁלוֹם non significa semplice “pace”, ma proviene dalla radice SH-L-M ש־ל־ם, la stessa di SHELEMUT שְׁלֵמוּת (completezza) e LESHALLEM לְשַלֵּם (riparare, compensare). La pace è dunque pienezza, non silenzio: un processo di ricomposizione, di TIKKUN תִּקּוּן, in cui frammenti e ferite trovano un contenimento.
Freud ha descritto l’uomo come diviso tra Eros, pulsione di vita, e Thanatos, pulsione di morte e di disgregazione. Nella tradizione ebraica questa tensione è già presente nei due impulsi fondamentali: YETZER HATOV יֵצֶר הַטּוֹב (inclinazione al bene) e YETZER HARA יֵצֶר הַרַע (inclinazione al male).
SHALOM non elimina Thanatos, né lo Yetzer Hara: li integra, li trasforma in legame, impedendo che la scissione frantumi l’Io (ANI אֲנִי).
Il Talmud insegna: “Shmo shel HaKadosh Barukh Hu – Shalom” שְׁמוֹ שֶׁל הַקָּדוֹשׁ בָּרוּךְ הוּא שָׁלוֹם (Shabbat 10b) – “Il Nome del Santo Benedetto è Shalom”. Non un’utopia senza tensioni, ma il principio che rende possibile tenere insieme gli opposti senza collasso.
Così, la vera pace non è l’assenza di conflitto, ma la possibilità per il NEFESH נֶפֶשׁ di restare SHLEMÁ שְׁלֵמָה (integra), pur abitando la lacerazione tra Eros e Thanatos.