Nella tradizione ebraica, scrivere non è un gesto neutro. Non è mai solo trascrizione, memoria o decorazione del pensiero. È un “atto riparatore”. È tikkun. Secondo la Quabbalah ogni parola scritta, se autentica, se necessaria, partecipa a un processo cosmico: la riorganizzazione delle scintille divine disperse nella frattura primordiale del mondo.
Da Luria in poi, non si scrive per spiegare ma per aggiustare. Per rimettere insieme ciò che si è spezzato.
Per dare dimora all’invisibile.
Scrivere, allora, significa assumere la responsabilità del linguaggio.
Significa chiedersi: questa frase avvicina la luce o la disperde?
Restituisce voce a ciò che è stato silenziato, o costruisce nuovi veli?
Ogni lettera è un frammento di mondo.
Ogni pagina, un frammento di creazione.
E ogni autore, consapevole o meno, è un operaio nel cantiere infinito della riparazione.
Nel mondo ebraico, la redenzione non inizia con un miracolo.
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