Sapore di mare (1983), diretto da Carlo Vanzina, è molto più di un esercizio di nostalgia cinematografica: è un’operazione di ingegneria culturale che rimette in circolo, con sapiente mimetismo, il linguaggio visivo e narrativo del film vacanziero dei primi anni Sessanta, innestandolo sul corpo sociale e mentale dell’Italia del riflusso. Non un revival ingenuo, dunque, ma un’operazione di citazione codificata, quasi metalinguistica, in cui il passato non è semplicemente evocato: viene messo in scena come segno, manipolato e offerto allo spettatore già nella sua forma mitizzata.
La regia di Carlo Vanzina lavora con apparente trasparenza, ma sotto questa patina di leggerezza si cela un occhio che sa benissimo cosa sottrarre e cosa accentuare. I campi lunghi sulle spiagge versiliane, spesso in controluce, non sono semplici quadretti turistici: si comportano come “segni pieni” (per dirla con Barthes), condensando in un’immagine la promessa di un’estate ideale.
La fotografia, calda e lievemente sovraesposta, imita le cromie e le imperfezioni delle emulsioni anni ’60, producendo un effetto di falso ricordo che colloca lo spettatore in uno spazio sospeso tra memoria individuale e memoria mediatica.
Il montaggio, fluido e senza strappi, asseconda questa strategia, evitando brusche accelerazioni: ogni raccordo sembra calibrato per non interrompere il continuum nostalgico. La colonna sonora, antologia ruffiana ma impeccabile di successi d’epoca, agisce come dispositivo semiotico di ancoraggio: non solo accompagna l’azione, ma fornisce il contesto emotivo e temporale in cui le vicende vengono recepite, trasformando la trama in un mosaico di momenti riconoscibili più per la loro carica evocativa che per la loro funzione narrativa.
Il cast risponde alla stessa logica: giovani interpreti ancora liberi dalle maschere del successo (una Marina Suma reduce dalla prova intensa in Le occasioni di Rosa di Piscicelli), figure di carattere come Ennio Antonelli, doppiato in un verace versiliano, e presenze di prestigio come Virna Lisi, qui icona di un fascino maturo, e Ugo Bologna, il cui commendator Carraro resta un esempio di costruzione di ruolo attraverso tempi comici millimetrici.
In realtà, più che un semplice ricordo, Sapore di mare propone una nostalgia che funziona da manifesto ideologico: gli anni Ottanta sono i nuovi Sessanta. L’estate, con la sua mitologia di amori fugaci e di sospensione del tempo, non viene rievocata come reliquia ma riattivata come modello per il presente, ripulita dalle ombre della stagione cupa dei Settanta. Il film non si limita a costruire un ponte tra due epoche: afferma che il passato può essere riformulato per colonizzare l’immaginario contemporaneo, facendosi dispositivo di identità collettiva.