Uno dei film più folli e pericolosi mai realizzati e grandissimo disaster movie durato 11 anni di riprese e un flop commerciale enorme.
Alla fine dei Sessanta, Tippi Hedren, attricie degli ucelli ancora avvolta dall’aura di Hitchcock, e il marito Noel Marshall si convinsero di poter dimostrare che l’uomo e i grandi felini potevano convivere.
Un sogno new age, ingenuo e demente: portare la giungla in casa.
Nel loro ranch di Shambala, in California, riversarono centocinquanta leoni, tigri, giaguari e puma non addestrati, liberi di vagare tra attori e troupe come in una comune mistica sull’orlo dell’apocalisse.
Nel giro di pochissimo tempo arrivò il delirio.
Le riprese di Roar si trasformarono in un mattatoio, dove si moltiplicarono decine e decine di incidenti gravissimi, come amputazioni, ferite…
Il direttore della fotografia Jan de Bont venne colpito da un leone alla testa scalpo aperto, 120 punti di sutura, sangue ovunque, la macchina da presa che continua a girare.
Melanie Griffith, figlia di Hedren, fu sfigurata da un graffio che le aprì la guancia fino all’osso.
Tippi Hedren venne morsa al collo, sollevata e scaraventata a terra da un elefante in fuga, frattura scomposta alla gamba, volto gonfio, livido, ma sempre davanti all’obiettivo.
Noel Marshall, come un Kurtz suburbano, fu morso decine di volte fino a contrarre la cancrena alle mani, ma rifiutò di fermarsi.
Il sangue macchiava i copioni, le cineprese, le pareti della casa trasformata in habitat selvaggio.
I leoni dormivano nei letti, distruggevano porte, sbranavano divani.
Ogni scena era una roulette biologica.
Lo slogan, ormai leggendario, non era una trovata pubblicitaria ma un avvertimento:
“Nessun animale è stato ferito durante le riprese. Ma 70 persone sì.”
Undici anni di girato, diciassette milioni di dollari, 70 feriti reali, zero addestratori, nessun copione rispettato.
Il film uscì nel 1981, accolto come un abominio: incassò appena due milioni di dollari e scomparve nell’imbarazzo generale.
Eppure Roar è un film unico, irripetibile, un’epifania della follia umana travestita da ideale ecologista.
Guardarlo oggi è come assistere alla cronaca di un sacrificio collettivo: l’uomo che pretende di fondersi con la natura finisce per esserne divorato.
Roar è il cinema che implode su se stesso, il momento in cui l’immaginazione si ribella al suo creatore e lo sbrana.