Rattus Norvegicus (1977) si impone come uno dei debutti più anomali del punk britannico, proprio perché gli Stranglers, formatisi prima dell’esplosione del movimento e temprati più nei pub che nelle avanguardie antagoniste, rifiutano qualsiasi adesione programmatica ai codici del genere. Cornwell, Burnel, Greenfield e Jet Black incarnano un ibrido spiazzante: tecnicamente troppo dotati per il minimalismo punk, troppo ruvidi per la tradizione rock, e sostenuti da un cinismo urbano che supera in profondità la rabbia rituale dei coevi.
In questo album la band costruisce un suono che, più che esplodere, si contorce: l’organo di Greenfield, con il suo residuo psichedelico, e il basso di Burnel, di una verticalità quasi minacciosa, plasmano paesaggi sonori in cui l’aggressività diventa claustrofia. Brani come “Peaches”, con il suo realismo spietato, o “Hanging Around”, con la sua osservazione da entomologi della vita metropolitana, rivelano un’estetica fondata non sull’iconoclastia, ma su un sarcasmo feroce che svela la disgregazione sociale più che invocare rivoluzioni.
Rattus Norvegicus agisce così da controcampo del punk: invece di proclamare la necessità di un mondo nuovo, registra con lucidità antropologica,le crepe di quello esistente. È un disco che si muove come un animale notturno ai margini della scena, rivelando ciò che il punk tendeva a semplificare: la complessità, sporca e irredimibile, della modernità urbana.
Forse proprio per questo, ancora oggi, il disco conserva una vitalità perturbante: non documento storico, ma organismo vivo che continua a mordere, a insinuarsi, a restituire il brivido di una verità che nessun gesto iconoclasta riuscì mai davvero a cancellare.