Possession è uno dei film più radicali e disturbanti del cinema europeo, un’opera che sfugge a ogni definizione di genere, oscillando tra horror psicologico, dramma coniugale, allegoria politica e delirio metafisico. Andrzej Żuławski, regista polacco esule a Parigi dopo la censura subita in patria, realizza con questo film un urlo viscerale, un’esplosione di ossessioni personali e collettive, ambientata nella Berlino Ovest dei primi anni Ottanta: una città divisa, spettrale, che diventa il riflesso topografico della mente dei protagonisti.
La trama, solo in apparenza lineare, ruota attorno alla disintegrazione del matrimonio tra Anna (Isabelle Adjani) e Mark (Sam Neill), ma il racconto presto implode in una spirale di violenza, follia e possessione fisica. L’amore si trasforma in malattia, il desiderio in mutazione organica, la gelosia in horror cosmico. Nei suoi momenti più estremi – il celebre delirio metropolitano di Adjani nella stazione della metropolitana, la lenta rivelazione della creatura tentacolare ideata da Carlo Rambaldi – il film oltrepassa il realismo per farsi visione pura: una rappresentazione tangibile dell’inconscio che divora se stesso.
Żuławski dirige con una regia nervosa, convulsiva, fatta di carrelli vorticosi, piani-sequenza ossessivi, inquadrature sbilanciate. La macchina da presa sembra posseduta essa stessa, come i suoi personaggi, incapace di trovare quiete o distanza. Gli interni spogli, claustrofobici, sono scenografie mentali; la Berlino livida e deserta è una zona liminale tra due mondi, metafora di un’Europa scissa e di una mente che si disgrega.
L’interpretazione di Isabelle Adjani è monumentale, una delle più fisiche e devastanti mai viste sullo schermo: isterica, erotica, sacrale, attraversa ogni stato dell’essere umano fino al puro spasmo animale. Sam Neill, suo contraltare, incarna con ambiguità la fragilità maschile, oscillante tra dominio e annichilimento.
Possession è un film sull’impossibilità di amare senza distruggere, sull’orrore del doppio e sulla vertigine dell’identità. È insieme un dramma domestico e un esorcismo politico, una riflessione sulla crisi dell’individuo e del mondo diviso in cui vive. Con la sua estetica eccessiva, lirica e febbrile, rimane una delle opere più scandalose e necessarie del cinema moderno: un’esperienza di possessione reciproca tra spettatore e immagine.