Il secondo LP di Townes Van Zandt è un viaggio nell’ombra, tra ballate ipnotiche e poesia nera. Our Mother the Mountain non è solo uno dei suoi migliori lavori, ma anche una delle vette della canzone americana. Il folk si tinge di inquietudine, popolato da amori perduti, presagi sinistri e paesaggi sonori avvolgenti.
Registrato tra Los Angeles e Nashville con musicisti del calibro di James Burton e Charlie McCoy, il disco segna un’evoluzione rispetto all’esordio: la produzione, pur più raffinata, lascia spazio alla crudezza della voce e alla fragilità della narrazione. Brani come Be Here To Love Me, Snake Mountain Blues e la re-incisa Tecumseh Valley raccontano storie di sconfitta e malinconia con un’intensità spettrale.
La title track è un capolavoro di tensione e mistero: un waltz minore che avanza nella notte, mentre St. John the Gambler è una disperata ballata d’amore che avrebbe brillato ancora di più senza gli arrangiamenti orchestrali. Il disco, ignorato dal grande pubblico all’epoca, è diventato un culto tra i songwriter, ispirando generazioni di artisti.
Van Zandt era già un outsider, un poeta dannato della country music.
Questo album ne è la prova definitiva: delicato e brutale, seducente e inaccessibile. Un disco da ascoltare con il cuore aperto e la notte intorno.