Girato in due anni, tra mille soste, spostamenti e crisi di produzione, Otello di Orson Welles è uno dei film più tormentati e al tempo stesso più visionari del dopoguerra. Un’opera costruita pezzo dopo pezzo, come un mosaico febbrile in cui ogni tessera ha un colore diverso, ma tutte insieme compongono una vertigine.
Il montaggio è sincopato, nervoso, spigoloso, un continuo cortocircuito di tempi e luoghi. Welles taglia, ricuce, frammenta: la logica narrativa cede il passo al ritmo interiore, quasi musicale, del tradimento e della gelosia. È un Otello che pulsa, che respira a scatti. Ogni inquadratura sembra voler fuggire da quella precedente. Il risultato è un film che non “scorre”: si agita, come un corpo in preda alla febbre.
La lavorazione fu leggendaria per caos e ostinazione. Welles girò in Marocco, a Venezia, in Italia, ovunque trovasse soldi e location disponibili. Gli attori cambiavano, i costumi si perdevano, le scene si rifacevano mesi dopo. Alcuni frammenti furono montati quando già nessuno ricordava più dove fossero stati girati. Eppure da questo disordine nasce una coerenza nuova, tutta visiva, fatta di ombre, tagli di luce, geometrie barocche.
Ogni elemento tecnico, fotografia, montaggio, sonoro, sembra obbedire non alla logica del racconto, ma all’ossessione del regista: rendere la paranoia visibile. È un film sulla perdita di controllo, girato da un uomo che sta perdendo il controllo. Ma proprio in questo delirio formale sta la sua modernità.
Otello è Shakespeare riscritto come un incubo. Nessuna compostezza, nessuna retorica teatrale: solo caos, eros e sospetto. Il tempo non scorre, esplode a frammenti, come un pensiero che si interrompe e riparte.
Un film immenso