Il primo disco di Elvis Costello, My Aim Is True, è una crepa nel muro della musica inglese di fine anni Settanta, quando il pub rock aveva esaurito il suo compito di staffetta del rock’n’roll e il punk faceva irruzione con tutta la sua furia adolescenziale.
Costello arriva da quella scuola di locali fumosi di Camden e Islington, pavimenti appiccicosi e riff spartani, ma non si lascia imbrigliare: porta con sé il sarcasmo di chi ha visto fallire i sogni hippie e l’amarezza di chi non crede alle nuove mode.
Il disco è registrato in fretta, con i californiani Clover come backing band non accreditata, quasi un corpo estraneo infilato per necessità, ma proprio questa chimica scombinata gli dà la forza: voce tagliente sopra accompagnamenti secchi, niente fronzoli, tutto nervoso e vivo.
La produzione di Nick Lowe per Stiff Records accentua il carattere: etichetta eccentrica, anti-industriale, capace di lanciare un outsider con occhiali spessi e giacca scura come fosse il manifesto della sua ironia.
I pezzi alternano cinismo e fragilità: “Alison” è un sussurro amaro, “Less Than Zero” una fucilata morale, il resto è una sequenza di scosse brevi, quasi pub-punk filtrato da un cervello troppo lucido per lasciarsi ridurre a slogan.
Costello non appartiene a nessuna etichetta: non è punk puro, non è cantautore classico, non è nemmeno l’eroe indie che Stiff vorrebbe.
È eccentrico, un sabotatore, uno che porta nel rock la precisione acida di un contabile arrabbiato e l’eleganza di chi sa che l’uniforme, l’abito scuro, può essere più sovversivo di una spilla da balia. My Aim Is True resta così: un disco chimico e spigoloso, nato tra staff invisibili e tempi strettissimi, figlio del pub rock e fratello del punk, ma con la testa altrove. Un’opera che vive nello scarto ironico di chi non vuole piacere e proprio per questo diventa imprescindibile.