Un giallo vudù? Un trattato eretico mascherato da romanzo pop? Una black fantasy sghemba e disturbante? Una satira feroce della Harlem degli anni ’20? Una critica insidiosa delle politiche interne alla comunità afroamericana? O magari la prefigurazione, del tutto inconsapevole eppure inevitabile, dell’immaginario p-funk di George Clinton & Co.?
“Mumbo Jumbo” è tutto questo, e insieme non è nessuna di queste cose. È un oggetto narrativo non identificato, un U.F.O. letterario che scardina la tassonomia dei generi e si muove con la disinvoltura di chi sa di non avere predecessori né, forse, eredi.
È un libro che pretende di essere decifrato, come un codice occulto. La sua forma cangiante, metà romanzo, metà saggio, metà rituale esoterico, lo rende una delle opere più geniali e irregolari del Novecento americano.
Ed è quasi grottesco che un testo così incendiario e visionario sia rimasto ai margini del canone. Parliamo di un romanzo che Harold Bloom stesso inserì tra i 500 libri fondamentali del secolo, un riconoscimento quasi paradossale per un’opera che si sottrae programmaticamente a ogni forma di canonizzazione.
“Mumbo Jumbo” è un libro di culto: nel senso religioso, estetico e antropologico del termine
Un libro che agisce, più che raccontare. Un virus che infetta chi lo legge. Un esperimento di narrativa afro-futurista prima che l’afro-futurismo esistesse.
Un capolavoro occulto.