Registrato nel 1970, Mona – The Carnivorous Circus è uno di quei dischi che sembrano usciti da un sogno febbrile o da un esperimento fallito di alchimia sonora. Mick Farren, ex frontman dei Deviants, poeta rock e figura cardine dell’underground londinese, realizza un album che non è né rock né psichedelia né spoken word, ma una deriva allucinata e corrosiva della controcultura post-’68.
Costruito come un collage sonoro più che come un disco vero e proprio, Mona alterna brani semi-improvvisati, rumori urbani, interviste, rant ideologici e confessioni personali. È un viaggio disturbante attraverso i resti della Swinging London, ormai spenta e tossica, dove il sogno psichedelico è imploso in paranoia politica, droghe cattive e senso di fine imminente.
Musicalmente è un ibrido grezzo e caotico: blues distorto, proto-punk, free jazz, recitativi psicotici e chitarre slabbrate che anticipano l’estetica no-wave e industrial di un decennio dopo. Farren urla, sussurra, filosofeggia, mentre attorno a lui i musicisti (tra cui Steve Peregrin Took e l’ex Pretty Things Twink) creano un magma sonoro senza centro, un’orgia di feedback e dissonanze.
Mona è un disco scomodo, volutamente anti-musicale, concepito come autopsia del rock e della sua retorica libertaria. Se i Deviants rappresentavano la ribellione, qui Farren mette in scena la sua decomposizione, trasformando l’utopia psichedelica in distopia acida.
Riascoltato oggi, l’album suona come un manifesto anticipatore del punk più intellettuale e autodistruttivo — un Frank Zappa gettato in un buco nero, un Burroughs con la chitarra elettrica, un documento di pura disperazione culturale.
Un oggetto alieno, irregolare, geniale nella sua anarchia, che cattura l’istante in cui la controcultura capisce di essere diventata sistema e sceglie di implodere piuttosto che adattarsi. Uno di quei dischi che non si amano, si subiscono.

David Pacifici