“Master of Reality” non è semplicemente il terzo album dei Black Sabbath: è l’atto fondativo, quasi inconsapevole, e proprio per questo irripetibile, di un linguaggio sonoro che avrebbe dato forma all’heavy metal, al doom, allo stoner e a quell’intera costellazione di sottogeneri che, da allora, non hanno mai smesso di declinare l’idea sabbathiana di peso, di gravità, di materia sonora portata al limite dell’opacità.
Pubblicato nel 1971, in un momento in cui la band era ancora sospesa in quello stato di lucidissima anarchia creativa che segue i debutti geniali e precede gli sbandamenti chimici, il disco nasce da una condizione tecnica quasi accidentale: Tony Iommi, per alleviare il dolore alle dita ferite, abbassa l’accordatura della chitarra. È un gesto utilitaristico che diventa, nel giro di pochi minuti, una rivoluzione estetica. Quel semitono, poi un tono intero, poi una serie di micro-scivolamenti verso il sottosuolo, non produce solo un suono più cupo, ma un nuovo paradigma di ascolto: un riff che non è più mero accompagnamento, ma architettura portante, monolite, fondazione ritmica e ideologica del brano.
“Sweet Leaf”, con il suo cough d’apertura trasformato in manifesto, è la celebrazione non tanto dell’erba in sé quanto della liberazione percettiva come metodo compositivo. “Children of the Grave” è una marcia ossessiva che traduce in forma musicale l’inquietudine post-hippie: finito il sogno, resta il battito, primitivo e militante. “Lord of This World” e “Into the Void” proiettano la band in uno scenario quasi escatologico: il male non è più una maschera estetica, ma il materiale primario da plasmare, con lentezza, con decisione, con una densità che nessuno, fino ad allora, aveva osato.
Paradossalmente, mentre l’album si costruisce come un blocco compatto e nerissimo, emergono anche aperture liriche inattese: “Solitude”, che molti scambiano per un’anticipazione dei momenti più morbidi di “Sabbath Bloody Sabbath”, è invece un esercizio di vulnerabilità sonora che amplifica, per contrasto, la massa degli altri brani. Le linee di Geezer Butler, qui più mobili, creano una trama malinconica che sfugge alla caricatura metal e restituisce alla band una profondità emotiva raramente riconosciuta.
L’importanza storica di Master of Reality consiste proprio in questa duplice tensione: da un lato l’irrobustimento definitivo del linguaggio Sabbath, dall’altro la sua apertura verso una dimensione più atmosferica, quasi contemplativa, che permetterà alle generazioni successive, dai Melvins ai Sleep, da Kyuss a Electric Wizard, di trattare il suono come materia plastica, duttile, spirituale. È un disco che insegna che la lentezza può essere rivoluzionaria, che il vuoto tra le note è uno spazio politico, che il “pesante” non è solo un attributo, ma un orizzonte di senso.
Riascoltato oggi, “Master of Reality” non appare come un semplice capitolo della discografia dei Black Sabbath, bensì come il punto in cui la band smette di essere un fenomeno rock e diventa, di fatto, una matrice culturale: da qui in poi non si tratterà più di imitare i Sabbath, ma di collocarsi nel loro campo gravitazionale, dove ogni riff è un pianeta e ogni distorsione un’orbita possibile.