Con L’uomo che non c’era, i fratelli Coen raggiungono una delle vette più rarefatte e formalmente compiute della loro filmografia: un noir metafisico sulla solitudine, l’invisibilità e la disgregazione del sé.Girato in un bianco e nero di stupefacente rigore, che richiama tanto la fotografia espressionista tedesca quanto la freddezza entomologica di Fassbinder, il film costruisce un universo sospeso tra la ricostruzione filologica del genere e la sua dissoluzione postmoderna.
Protagonista è Ed Crane interpretato da un magistrale Billy Bob Thorton, barbiere di provincia nella California degli anni Quaranta, uomo trasparente, apparentemente privo di passioni, che tenta, quasi per inerzia, di modificare il corso della propria esistenza.Nel suo gesto anodino e disperato si innesta la spirale del destino: un ricatto, un omicidio, un processo, e infine la morte.Ma l’azione criminale, più che una deviazione morale, è una strategia ontologica: Crane agisce per sentire di esistere, per infrangere la membrana del proprio anonimato. I Coen, qui, compiono un’operazione di raffinata ambiguità. Da un lato, costruiscono un perfetto meccanismo narrativo da noir classico, il delitto, la femme fatale, la voce fuori campo, l’inevitabile punizione; dall’altro, sabotano sistematicamente ogni certezza di genere, introducendo l’indeterminazione heisenberghiana come principio strutturale del racconto. Come nel principio di indeterminazione, l’osservatore modifica ciò che osserva: ogni sguardo, ogni voce narrante, ogni immagine del film è contaminata dalla coscienza di chi guarda.
Non a caso, Ed Crane è “l’uomo che non c’era”: presenza e assenza, testimone e fantasma, colui che osserva ma non comprende, che vive ma non è vissuto.
La messa in scena, geometrica e glaciale, rifiuta ogni emotività convenzionale.
I movimenti di macchina, millimetrici, trasformano gli spazi in gabbie ottiche; le inquadrature, in trappole prospettiche.La fotografia di Roger Deakins, cesellata come un’incisione su celluloide, diventa l’equivalente visivo del silenzio interiore di Crane: ogni luce è un interrogativo, ogni ombra un pensiero non espresso.Sul piano tematico, il film appare come una sorta di controparte speculare di Fargo.
Là dominava la meschinità provinciale e il caos morale; qui, invece, tutto è ridotto all’essenziale, in un mondo dove anche la colpa è depurata di pathos.
Alla volgarità di un crimine impulsivo si sostituisce una colpa metafisica, impalpabile, quasi concettuale: la colpa di esistere senza identità.
In questo senso, The Man Who Wasn’t There non è solo un noir, ma un trattato cinematografico sull’impossibilità dell’essere.
L’indeterminazione di Heisenberg, citata esplicitamente nel film, diventa il paradigma di un universo in cui ogni struttura crolla sotto lo sguardo che la indaga: Crane osserva la propria vita fino a dissolverla.
Sulla sedia elettrica, la sua morte non è punizione ma rivelazione: l’ultima, paradossale prova della propria esistenza.
Quando la pellicola brucia, con lui bruciamo anche noi, spettatori, autori, personaggi, intrappolati nella trama di un sogno che si credeva realtà.
È in quel momento che il film si chiude come un anello perfetto di meta-cinema ontologico: un noir che diventa filosofia, un dramma che si fa riflessione sull’atto stesso del vedere.
L’uomo che non c’era è, in definitiva, una sinfonia di assenze.
Un film che parla del nulla come solo i Coen sanno fare: con la precisione di un chirurgo e la malinconia di un poeta.