Opera tormentata, rinviata, osteggiata e infine realizzata come una sorta di voto personale, L’ultima tentazione di Cristo rappresenta uno dei momenti più alti, e più fraintesi. della filmografia di Martin Scorsese.
Tratto dal romanzo di Nikos Kazantzakis, il film nasce da una lunga gestazione che iniziò nel 1983 e fu bruscamente interrotta a pochi giorni dall’inizio delle riprese: un episodio che sembra già prefigurare la condizione del film stesso, condannato a vivere nel sospetto, nella controversia e nel sacrificio.
Definito “blasfemo” dalle autorità religiose e da buona parte della critica americana, The Last Temptation of Christ è, al contrario, un’opera di profonda spiritualità: una riflessione teologica tradotta in linguaggio cinematografico, un atto di fede espresso attraverso la crisi e non la certezza.
Scorsese non filma il Gesù trionfante della tradizione iconografica, ma un Gesù umano, fragile, psicologicamente scisso, combattuto tra la sua missione divina e il desiderio disperato di essere soltanto un uomo.
Nel volto scavato e febbrile di Willem Dafoe, Cristo non è più un’icona ma un corpo in lotta, attraversato da voci interiori, dubbi, passioni terrene, e soprattutto da una angoscia metafisica che si fa materia visiva.
Scorsese lo colloca in una dimensione quasi fenomenologica: la trascendenza non è più un dato, ma un processo, un travaglio, una lenta conquista che si consuma attraverso l’errore, la paura e la carne.
La regia, asciutta e sacrale, alterna momenti di violenza visiva a improvvisi squarci di misticismo visionario: il deserto diventa spazio mentale, il Golgota una vertigine interiore, e l’ultima tentazione la vita umana, domestica, carnale che Cristo immagina di vivere, assume il valore di una metafora ontologica: la possibilità del non-divino, la potenza del dubbio come atto di verità.
Scorsese, cattolico ossessionato dalla colpa e dalla redenzione, filma un Vangelo parallelo, uno “specchio oscuro” dei testi canonici.
La sua è una lettura drammatica e profondamente rosenzweigiana: la redenzione passa attraverso la crisi, la divinità si rivela solo nel travaglio dell’umano.
In questo senso, il film è molto più vicino alla mistica negativa che all’eresia: non nega il Cristo, ma lo restaura nella sua vulnerabilità ontologica, riconsegnandolo al tempo, alla carne, al limite.
Visivamente, The Last Temptation of Christ è di una potenza magnetica: i toni ocra e sanguigni, la materia polverosa, il deserto che diventa un luogo mentale.
La fotografia, insieme alle musiche di Peter Gabriel, costruisce una dimensione sospesa, arcaica e insieme contemporanea, dove l’iconografia biblica si ibrida con i linguaggi del cinema moderno.
Barbara Hershey (Maria Maddalena) è una presenza dolente e sensuale, e Harvey Keitel, nel ruolo di Giuda, è forse il vero protagonista tragico del film, Giuda come fedele necessario, l’uomo che tradisce per adempiere il destino del Messia, figura che Scorsese tratta con pietà e rispetto quasi dostoevskijano.
L’ultima tentazione di Cristo è un film che interroga il mistero della fede nel linguaggio della crisi: una meditazione sul rapporto tra sacro e umano, carne e spirito, colpa e libertà.
In un’epoca di iconoclastia superficiale, Scorsese costruisce un’iconoclastia autentica: quella che spezza l’immagine non per distruggerla, ma per restituirle la sua vertigine originaria.
Un capolavoro profondo, mistico e lacerante, forse il più teologico dei film “laici” del Novecento.