In Parashat Vayetzei (Torah), là dove si inaugura il tempo dell’esilio e delle relazioni attraversate dall’asimmetria del desiderio, Giacobbe fugge, sogna una scala di angeli, ama Rachel e sposa Leah, inscrivendo già nel proprio destino la frattura tra ciò che si vuole e ciò che accade.
Giacobbe ama Rachel prima ancora di possederla, la desidera come immagine, come promessa ideale, mentre Leah, “dagli occhi deboli”, non brutta ma opaca, resta la figura che non si sceglie, che non si guarda davvero. Nella notte delle nozze egli crede di stringere l’oggetto del proprio desiderio e stringe invece l’altra, perché di notte non si incontra l’altro, si abitano le proprie proiezioni, e solo con la luce del mattino la realtà irrompe come trauma. Leah diventa così la moglie non amata, vista da D-o ma non dall’uomo, e ogni figlio che genera si fa parola ferita, richiesta reiterata di uno sguardo che non arriva; Rachel, al contrario, è amata ma sterile, mentre Leah è feconda senza essere amata, e la scissione tra amore e generazione si stabilizza come struttura. Proprio da questa donna non scelta, tuttavia, nascerà la linea messianica, come a dire che la storia non procede secondo la logica del desiderio cosciente ma lungo le vie oblique del rimosso. Giacobbe stesso, che aveva fondato la propria identità sull’inganno di un padre cieco, viene ora catturato nella propria cecità del desiderio, perché ciò che non si integra nella coscienza ritorna, inesorabilmente, come destino. Parashat Vayetzei consegna così una verità inquietante: non siamo fondati da ciò che scegliamo di volere, ma da ciò che, mentre scegliamo, ci sfugge e ci eccede.