Nella parashà di Vayishlach Ya‘aqov torna verso il passato che aveva evitato: affronta l’incontro con Eisav, lotta di notte con un misterioso avversario, riceve un nome nuovo e rimane zoppicante. L’abbraccio con Eisav avviene, ma non riscrive nulla. La violenza irrompe attraverso i figli. Tutto prosegue, ma niente è riparato del tutto.
Il nucleo centrale di Vayishlach pare essere questo: l’identità nasce da una frattura che non viene guarita. Ya‘aqov diventa Israele non nel momento della riconciliazione, ma nella notte della lotta; non nello spazio del consenso, ma in quello dello scontro muto e senza testimoni. Il nome nuovo nasce nel punto in cui il corpo viene lesionato. Il soggetto emerge dall’asimmetria, non dall’unità.
In termini psichici, non c’è qui alcun “Io” pacificato: l’identità non è il risultato di una sintesi, ma il prodotto di un trauma che resta attivo. Israele non è colui che ha vinto, è colui che cammina portando il segno di ciò che non è stato risolto. La zoppia quindi non è un incidente di percorso, ma è la forma stessa della soggettività.
E infatti l’incontro con Eisav non cura la ferita. L’abbraccio avviene, le lacrime scorrono, ma subito dopo le strade si separano. Come accade spesso nell’esperienza psichica: l’oggetto della paura può essere incontrato, ma l’angoscia che lo ha generato non viene cancellata, solo ridistribuita.
Qui la Torah sembra dire qualcosa di radicale: non esiste identità senza scarto, senza residuo, senza una parte che non torna. Non si diventa se stessi per integrazione, ma per sopravvivenza alla frattura, alla ferita.
E allora le domande diventano inevitabili:
chi saremmo senza le nostre ferite?
Un Io integro sarebbe ancora un Io o solo una superficie non attraversata?
E soprattutto: si può abitare una identità che non promette guarigione, ma solo continuità nella ferita?
La Torah sembra suggerire una verità inquietante e lucidissima: l’essere umano non è ciò che si ricompone, ma ciò che continua a camminare nonostante ciò che resta spezzato.
David Pacifici