E’ un film di una precisione formale e psicologica implacabile: algido e crudele, lucido e spietato.
Fassbinder costruisce un melodramma sulfureo al femminile che diventa, sotto la superficie sentimentale, una spietata anatomia dei rapporti di potere, letti con uno sguardo che potremmo definire kojeviano: l’amore come dialettica servo-padrone, desiderio come dominio, soggettività come ferita.
Di chiara impostazione teatrale, il film si struttura come un kammerspiel claustrofobico in cinque atti, girato interamente in una sola stanza: uno spazio chiuso che diventa dispositivo simbolico, gabbia mentale e campo di battaglia emotivo. Fassbinder dimostra un controllo assoluto dello spazio drammatico, orchestrando la tensione attraverso la disposizione dei corpi, l’uso degli oggetti, i riflessi degli specchi, la stratificazione dei piani.
La regia è un saggio di virtuosismo contenuto: lunghi piani sequenza, carrellate misurate, panoramiche e lente zoomate che non distraggono, ma scavano. La macchina da presa interroga. La parola, invece, imprigiona.
Ogni dialogo è un colpo inferto o ricevuto, ogni silenzio un campo di forze.
Al centro, una Hanna Schygulla in stato di grazia: bellissima e feroce, ambigua e fragile, corpo e icona insieme. Intorno a lei, Fassbinder orchestra un piccolo universo di crudeltà eleganti e di desideri non corrisposti, in cui il potere si rovescia di continuo, senza mai redimersi.
Il risultato è un capolavoro assoluto, in cui il melodramma diventa forma di conoscenza e la messinscena teatrale si trasforma in una trappola ontologica: un film che, come i migliori di Fassbinder, non si limita a raccontare il dolore, ma lo mette in scena come sistema.
 
 
David Pacifici