Ultimo film di Jean Vigo, che morirà a soli 29 anni, pochi mesi dopo. Opera incompiuta, decostruita dai produttori e restaurata solo postuma, L’Atalante resta uno dei momenti fondativi del linguaggio cinematografico moderno.
Vigo ibrida realismo documentaristico e astrazione lirica.
L’impianto narrativo, minimale (viaggio fluviale, crisi coniugale, riconciliazione), diventa pretesto per una ricerca formale sul movimento, sulla materia visiva, sulla porosità tra spazio esterno e mondo interiore. La macchina da presa adotta soluzioni plastiche non convenzionali: carrelli laterali lenti, soggettive anomale, movimenti ondulatori che replicano l’oscillazione dell’acqua e del desiderio dei due amanti. Il film si sviluppa proprio sul tema del desiderio non tanto come mancanza o come tensione melodrammatica, ma come forza fisica, presenza che abita i corpi e gli oggetti, fluida come il fiume che attraversano.
Il montaggio alterna registri: lineare nella progressione narrativa, ellittico e associativo nelle sequenze oniriche (la scena subacquea, l’inquadratura del letto in cui gli amanti si cercano a distanza).
La dissoluzione tra sogno e realtà diventa motore drammatico, non semplice ornamento. La direzione degli attori rifiuta tanto il naturalismo quanto il teatro filmato: Michel Simon (Père Jules) incarna una fisicità anarchica e animale, Dita Parlo (Juliette) una fragile tensione verso l’altrove. Gli oggetti, scatole, pupazzi, reliquie, assumono una funzione narrativa simbolica, in linea con l’eredità surrealista.
L’Atalante si inserisce nella linea sotterranea del cinema europeo pre-bellico che rifiuta il découpage classico hollywoodiano, anticipando intuizioni che saranno pienamente sviluppate poi dalla Nouvelle Vague.