L’assassinio di un allibratore cinese (The Killing of a Chinese Bookie) è un film del 1976 diretto da John Cassavetes
Noir interiore e crepuscolare, attraversato da un’inquietudine febbrile, l’opera si configura come uno dei vertici più intimi e dolenti del corpus cassavetsiano, forse il suo film più esposto, più vulnerabile, più segretamente europeo. Cassavetes, in stato di grazia autoriale, firma qui un lavoro che scompagina ogni grammatica narrativa convenzionale, in un tentativo disperato e radicale di rendere visibile l’invisibile: il crollo dell’identità, la corrosione del legame umano, il disincanto del vivere.
Ambientato in una Los Angeles sospesa, disforica, anodina, slabbrata in un tempo notturno che sembra non conoscere né inizio né fine, il film adotta un registro visivo spigoloso, documentaristico, quasi brutale, che non cerca di estetizzare il degrado ma di abitarlo, esplorarlo, esporlo. Lo sguardo si fa clinico, ma mai cinico, restituendo la vertigine morale dell’esistenza come disfacimento e resistenza.
La struttura narrativa, marcatamente anti-teleologica, si nutre di sospensioni, attese, silenzi melvilliani. Il protagonista, incarnato da un Ben Gazzara che è allo stesso tempo alter ego e controcampo emotivo del regista, è un narratore spurio, opaco, spaesato e tenace, imprigionato nel paradosso etico del fare la cosa giusta in un mondo che non riconosce più alcuna differenza tra il bene e il male. Il fatalismo non è qui una posa, ma un destino interiorizzato, una grammatica dell’esistenza.
La regia è un inno alle sgrammaticature formali: l’assenza programmatica di controcampo, le ellissi improvvise e quasi violente, i controluce abbacinanti, le immagini volutamente sfocate, tutto lavora in funzione di una sintassi visiva sincopata, antinarrativa, in perpetua tensione verso il fallimento del ritratto, la disintegrazione del volto, la sparizione del personaggio come entità coerente.
Il finale, orgogliosamente autoreferenziale e meta-cinematografico, non chiude ma rilancia, come un riverbero autobiografico che dilata il film ben oltre i suoi confini diegetici. La colonna sonora, discreta ma incisiva, agisce come controcanto emotivo, depositando nei vuoti della narrazione un sedimento di malinconia irredimibile.