Ambientato in una Brooklyn spenta e silenziosa, La poltrona del padre è un dramma claustrofobico sull’impossibilità di separarsi dal passato. Il film, di impostazione quasi kammerspiel, mette in scena Abraham e Shagra, due gemelli ebrei ortodossi che vivono da decenni isolati nella casa di famiglia, trasformata in un reliquiario di oggetti, reliquie e superstizioni. La morte dei genitori ha cristallizzato in loro un lutto che non si risolve, un’inerzia affettiva che si è fatta forma di vita.
La poltrona del titolo quella appartenuta al padre, ingombra, consunta, intoccabile, diventa il fulcro simbolico dell’intera vicenda: oggetto totemico, trono e fardello, è insieme il centro della memoria e il punto cieco dell’esistenza dei due fratelli. Tutto ruota attorno a quella poltrona: la casa ne è l’estensione, la loro devozione domestica un culto dell’inerzia.
L’arrivo di una ditta di pulizie, chiamata per ordine dell’inquilino del piano superiore, stanco dell’odore e del degrado, segna l’irruzione del mondo esterno nel loro spazio sacralizzato. Gli uomini in tute bianche, con guanti e maschere, si muovono nella casa come officianti di un rito profano: la loro opera di “bonifica” si traduce in un vero e proprio esorcismo materiale. Ogni oggetto gettato via è una reliquia sconsacrata, ogni sacco d’immondizia una pagina strappata del Talmud domestico dei due fratelli.
La regia lavora per sottrazione, senza concessioni sentimentali. L’appartamento è fotografato in un bianco sporco, saturo di ombre e particelle, che restituisce la densità della polvere come metafora visiva della memoria. La luce, quando filtra, non libera: giudica. I gatti randagi attraversano i corridoi come testimoni muti di un disfacimento che è spirituale prima che materiale.
Nel corso del film, la progressiva invasione dello spazio coincide con la lenta disgregazione interiore dei protagonisti. Abraham reagisce con un misto di rabbia e smarrimento; Shagra, più rassegnato, osserva la dissoluzione come se fosse un atto inevitabile, forse necessario. Le parole sono poche, misurate, ripetute: il dialogo è sostituito dal suono degli oggetti trascinati, dai passi degli operai, dallo sferragliare dei sacchi di plastica.
La poltrona del padre è un film sulla materia che resiste e sulla memoria che soffoca. L’accumulo domestico diventa un archivio del rimosso, una forma di teologia negativa della famiglia. L’opera non racconta: medita. Il tempo, compresso, non procede ma fermenta. La casa, come in Tarkovskij o in Haneke,  è un organismo vivente, un corpo che assorbe e trattiene, un utero che diventa tomba.
La scena finale, di un rigore quasi rituale, mostra i due fratelli seduti uno accanto all’altro nella stanza ormai svuotata, mentre la luce del pomeriggio attraversa la finestra appena ripulita e cade sulla poltrona rimasta al centro. L’oggetto che doveva essere rimosso è l’unico sopravvissuto. È l’ultima resistenza, ma anche il segno di una possibile rinascita: non come riconciliazione, bensì come consapevolezza della perdita.
In bilico tra realismo e astrazione, tra metafora e cronaca, La poltrona del padre è un film che affronta la materia della memoria con disciplina quasi monastica. Nessuna musica, nessun compiacimento visivo, nessun sentimentalismo: solo la fatica della luce che cerca di attraversare la polvere. È un cinema che pensa, un cinema che respira lentamente, un film che si chiude dove comincia la vita reale, nel silenzio dopo la pulizia, nell’eco di ciò che è stato spostato, ma non dimenticato.

David Pacifici