La morte di Diane Keaton lascia un senso di sospensione, come se si spegnesse una voce che, più che parlare, modulava le esitazioni di un’epoca. Non è facile definirla: attrice, icona, presenza, perché Keaton ha sempre abitato quella zona di confine dove l’intelligenza ironica sconfina nella malinconia e la grazia nel disordine.
Con Io e Annie, il film che l’ha resa eterna, Keaton non interpreta soltanto un personaggio ma un modo di stare al mondo. Annie Hall, con i suoi abiti maschili, il linguaggio spezzato, il sorriso timido e insieme sovversivo, incarna la rivoluzione silenziosa degli anni Settanta: una femminilità non compiaciuta e introspettiva.
In lei si riconosceva una generazione che imparava a esistere senza modelli preconfezionati, a essere ironica e vulnerabile senza sentirsi inferiore.
Eppure, la sua grandezza non si esaurisce in quel ruolo iconico. Nella saga del Padrino, Keaton è la coscienza civile dentro il mito maschile, la testimone silenziosa del potere e della sua corruzione.
Il fascino di Diane Keaton nasce da questa contraddizione: la capacità di essere simultaneamente fragile e impenetrabile, luminosa e disincantata.
Il suo è il carisma della ragazza di provincia trapiantata a New York ingenua ma non stupida, irregolare ma precisa, capace di trasformare ogni incertezza in segno distintivo. La sua voce, le sue pause, i suoi gesti incerti hanno reso la naturalezza una forma d’arte.
Resta la sua eredità non soltanto nei film, ma in quel modo irripetibile di trasformare la vulnerabilità in linguaggio, di farne non un difetto ma una forma di grazia.