“Joan Lui – Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì” (1985) è il film in cui Adriano Celentano decide di incarnare l’idea stessa di onnipotenza: scrive, dirige, monta, musica e interpreta, come se l’intero cinema italiano avesse improvvisamente bisogno di un salvatore… e purtroppo quel salvatore fosse lui. Il risultato è un capolavoro assoluto del trash italico, un disastro super-grandioso che anticipa di anni il crollo di Nuti con “OcchioPinocchio”: la ghigliottina del “film d’autore” cala su Celentano e la testa del Molleggiato rotola già dopo i primi minuti. L’opera, che Adriano sognava da tempo, era stata più volte rimandata da Cecchi Gori, che aveva capito l’odore di bruciato ancor prima di tutti gli altri; e infatti, dopo una trattativa serrata, Celentano ottiene un budget di venti miliardi impegnandosi in cambio a recitare in due film dello studio (“Lui è peggio di me” e “Il Burbero”). A quel punto gira il kolossal che chiude definitivamente la sua carriera di regista, un progetto che vorrebbe essere una sorta di neo-vangelo postmoderno, con un Lui-Jesus in versione 1985, e che invece si trasforma in un delirio totale: kitsch ideologico aggiornato, frecciatine improvvisate alla Guerra Fredda, la scomparsa di Emanuela Orlandi richiamata con manifesti identici a quelli veri, e un’estetica che procede a scarti come un jukebox rotto.
La bruttezza del film ha qualcosa di sublime, una qualità quasi mistica. Ci sono perle tali da far vacillare la logica: il sigaro di Gian, che più lo fuma e più allunga (una rivoluzione del concetto di combustione), oppure quotidiani “esteri” con titoli in perfetto italiano, come se tutto il mondo si fosse messo d’accordo per semplificare la vita al protagonista. Intorno, una produzione che pare un circo allo sbando: ballerine americane ferme per mesi a Roma senza far nulla, un cast sgangherato, coreografie pretenziose e allo stesso tempo malandate, e un Celentano che gioca a fare Kubrick mentre porta quasi sul lastrico i Cecchi Gori. Il montaggio, affidato inizialmente allo stesso Adriano, produce la celebre versione da tre ore uscita a Natale 1985: un flusso audiovisivo incoerente, talmente ingovernabile che si narra sia stato chiamato persino Kim Arcalli per tentare di metterci una pezza, senza riuscirci.
Il film, prodotto in tre stabilimenti diversi e trasportato in elicottero nei cinema solo per garantirne l’uscita il 25 dicembre — giorno della nascita del “vero Lui”, non sia mai che la metafora sfugga — viene stroncato dalla critica e ignorato dal pubblico. A quel punto si tenta la carta della versione accorciata: due ore, distribuite a Milano. Ma un fan avverte Celentano, che blocca tutto e chiede dieci miliardi ai Cecchi Gori per aver “deturpato” l’Opera. E così “Joan Lui”, ancora oggi felicemente inguardabile, rimane uno dei rarissimi kolossal italiani, forse il più grande flop mai prodotto: un monumento all’ambizione fuori scala, al kitsch incontrollato e al fascino irresistibile del disastro. Un’esperienza da riscoprire solo per chi ama, con autentica devozione, il cinema che fallisce in modo epico