Il servo (The Servant) è un film del 1963 diretto da Joseph Losey.

Il servo (1963), vertice assoluto della collaborazione Losey–Pinter, è un film che trasforma la dialettica servo-padrone in una liturgia dell’ambiguità, una messa nera della decadenza borghese officiata con glaciale precisione formale. Losey orchestra, in un bianco e nero ieratico e chirurgico, una geometria di sguardi e riflessi dove l’architettura diventa organismo psichico, spazio metastabile che assorbe e corrompe i suoi abitanti. La casa – prigione o ventre – è il vero protagonista: un labirinto di specchi, superfici riflettenti e angoli otticamente instabili, che moltiplicano e distorcono le figure fino a dissolverle in una topologia del dominio e della dipendenza. Pinter innesta sulla novella di Maugham una drammaturgia di accerchiamento: il linguaggio, ridotto a tagliente cerimoniale del potere, sostituisce l’azione, e la parola si fa strumento di erosione identitaria. È un dialogo che non comunica, ma scava; una scrittura che implode, trasfigurando il conflitto sociale in patologia relazionale. Il rapporto fra il servo Barrett e il suo datore Tony non si limita alla dialettica hegeliana: la trascende, precipitando in una zona freudiana di transfert e regressione, dove il desiderio e la sottomissione diventano forme complementari della stessa malattia di classe.Losey, marxista d’esilio e regista dell’alienazione, filma tutto con l’occhio impassibile di un entomologo morale: i personaggi sono insetti intrappolati in un esperimento ottico, e l’immobilità che li avvolge è quella di una civiltà al collasso, ipnotizzata dal proprio riflesso. Dirk Bogarde, con il suo sguardo gelido e insinuante, incarna magistralmente la mutazione dell’uomo servile in manipolatore, del subordinato in carnefice, restituendo un ritratto della degenerazione borghese che anticipa di decenni la pornografia del potere postmoderno.Il servo è dunque più che un film: è un saggio visivo sull’inversione dei ruoli, sulla liquefazione dell’autorità e sulla dipendenza come motore nascosto di ogni relazione umana. In quell’estetica del controllo e del degrado, Losey e Pinter costruiscono un monumento gelido alla fine della coscienza di classe — o forse, alla sua definitiva interiorizzazione.