Opera d’esordio di straordinaria maturità estetica e psicologica, Il profumo della signora in nero di Francesco Barilli rappresenta una delle più singolari e raffinate incursioni del cinema italiano negli abissi dell’inconscio.
Film claustrofobico, vischioso, ossessivo, costruito su una tensione sottile tra eleganza formale e malvagità latente, si impone come una deviazione radicale dal giallo tradizionale: meno interessato alla dinamica del delitto che all’analisi perturbante della psiche.
Girato nel 1974, in piena stagione di contaminazione tra horror, psicanalisi e sperimentazione visiva, il film si distingue dal coevo spaghetti thriller per la sua dimensione introspettiva e “malata”.
Barilli, più vicino a Polanski che ad Argento, abbandona le impalcature del poliziesco e del mistery per costruire una parabola mentale sulla dissoluzione dell’identità, sull’impossibilità di separare realtà e allucinazione.
La protagonista, Mimsy Farmer, incarna un archetipo di fragilità psicotica, una figura perturbante e diafana che si muove in un universo rarefatto e domestico, dove ogni oggetto, ogni spazio, ogni volto diventa segno di una persecuzione interna.
Il suo corpo e il suo sguardo, costantemente filmati come superfici riflettenti, come specchi deformanti, si fanno campo di battaglia tra rimozione e ritorno del rimosso.
Barilli orchestra il tutto con una regia dal rigore quasi entomologico: l’uso di inquadrature geometriche, spazi angusti, ottiche distorte e movimenti circolari costruisce una dimensione visiva di vertigine claustrofobica, dove il reale sembra restringersi su se stesso fino a implodere.
L’ispirazione polanskiana (da Repulsion a Rosemary’s Baby) è evidente, ma non deriva da semplice citazione: Barilli ne interiorizza il linguaggio per generare una metafisica del delirio filtrata attraverso la sensibilità mediterranea.
Ne deriva un film impregnato di simbolismo sessuale e religioso, in cui l’eros si intreccia alla paranoia, e la memoria infantile diventa strumento di tortura.
Il racconto si snoda come una progressiva allucinazione narrativa: le figure che circondano la protagonista, amici, amanti, vicini, perfino la madre, si confondono in una rete di manipolazione psichica e rituale che culmina in un finale grand-guignolesco, di grottesca crudeltà e sublime ironia.
Il realismo svanisce, sostituito da un orrore cerebrale e barocco, in cui il sangue e la follia si fondono in un’estetica quasi pittorica.
Tecnicamente impeccabile, il film si avvale della fotografia di Mario Masini, il cui lavoro sulla luce e sui colori, smaltati, ossessivamente sensuali, conferisce alla pellicola un tono da sogno febbricitante.
La colonna sonora di Nicola Piovani, sospesa tra inquietudine lirica e dissonanze orchestrali, amplifica la tensione percettiva e l’angoscia del quotidiano deformato.
Se la leggenda vuole che il soggetto sia nato da un’esperienza personale di Barilli durante un soggiorno in Congo, ciò che emerge non è tanto il ricordo biografico, quanto la trasfigurazione mitica del trauma: il ritorno del passato come possessione.
A differenza dei modelli argentiani o fulciani, Il profumo della signora in nero non ricerca lo shock visivo ma l’insinuazione mentale; non l’esplosione del sangue, ma l’erosione lenta della ragione.
È un film dell’interiorità, della decomposizione psichica e del femminile come luogo della follia e della ribellione simbolica.
In questo senso, rappresenta una delle più compiute espressioni del thriller psicologico europeo, insieme ad Images di Altman e La cérémonie des fous di Chabrol, e un esempio raro di come il cinema italiano degli anni Settanta seppe fondere cultura alta e sperimentazione di genere.
Da segnalare, infine, la presenza magnetica di Mario Scaccia, perfetto contrappunto teatrale alla lucida follia della Farmer.
Il profumo della signora in nero resta oggi un capolavoro sotterraneo, una gemma nerissima incastonata nella stagione d’oro del cinema psicologico italiano: un film che, più che raccontare la follia, la incarna.