Con Il lamento di Portnoy, Philip Roth firma non solo la sua consacrazione letteraria ma anche l’atto fondativo del romanzo ebraico postmoderno americano. Pubblicato nel 1969, nel pieno della rivoluzione sessuale e del tramonto dell’innocenza americana, il libro esplode come un urlo liberatorio dentro la compostezza borghese dell’ebraismo urbano.Alexander Portnoy, trentenne newyorkese, ebreo, nevrotico e brillante, si confessa a uno psicoanalista freudiano in un monologo-fiume che è al tempo stesso terapia, delirio e stand-up comedy esistenziale. È un flusso verbale inarrestabile — osceno, autoironico, geniale — dove il sesso diventa metafora del conflitto identitario: il corpo come campo di battaglia tra la legge mosaica e l’America permissiva, tra il senso di colpa e il desiderio di dissoluzione.Roth prende l’archetipo del city jew delineato da Bellow e Malamud e lo porta all’estremo, privandolo di ogni pudore. Il lamento di Portnoy è un libro impudico nel senso più alto: una confessione che scardina la narrativa morale dell’integrazione, trasformandola in commedia psicoanalitica e in pamphlet contro l’ipocrisia.
L’umorismo di Roth è feroce, ma mai gratuito: dietro la comicità ossessiva, dietro le fantasie sessuali e le masturbazioni infantili, c’è la tragedia della coscienza moderna — un uomo diviso tra appartenenza e ribellione, spiritualità e carne, memoria e desiderio.Ogni pagina è una sfida: all’autorità paterna, alla madre-giudice, al dio dell’identità collettiva e al dogma del politicamente corretto. Il lamento di Portnoy è dunque molto più di una confessione erotico-nevrotica: è un atto teologico travestito da farsa, la bestemmia come forma di preghiera, la chutzpah come unica via di salvezza laica.In questo libro Roth anticipa tutto: l’America della terapia, la pornografia dell’anima, il culto dell’io come tragedia nazionale.
Un romanzo incandescente e irripetibile, il punto in cui l’ebraismo incontra Freud, Woody Allen e Kafka nello stesso divano analitico.