Il clan dei Barker (Bloody Mama, 1970) segna il punto più alto della filmografia di Roger Corman, non soltanto come regista ma come figura-ponte tra l’estetica del B-movie classico e le tensioni dissolventi della Nuova Hollywood. È un film che si muove sul crinale, estetico e politico, tra l’exploitation e la contestazione, riuscendo a trasformare la violenza pulp in un dispositivo di critica culturale.
Girato nel pieno della crisi dell’industria cinematografica tradizionale, Bloody Mama incarna l’irruzione di una contro-Hollywood: un cinema povero di mezzi ma ricco di energia sovversiva, capace di metabolizzare i codici del genere gangsteristico e di rovesciarli in chiave parodica, psicoanalitica e post-hollywoodiana. Corman, regista autodidatta e produttore di se stesso, anticipa qui molte delle inquietudini che esploderanno di lì a poco in Bonnie and Clyde o Badlands: la fascinazione per la devianza, la dissoluzione della morale borghese, la trasformazione del crimine in gesto liberatorio e anti-sistemico.
Al centro del film troneggia Shelley Winters, madre-matriarca sanguinaria e ossessiva, la cui interpretazione tocca vertici di crudeltà e ambiguità psicosessuale raramente concessi al cinema americano dell’epoca. La sua “Bloody Mama” è insieme figura arcaica e mostruosa, un totem familiare deformato che racchiude in sé la violenza primordiale e l’isteria della società patriarcale in decomposizione. Intorno a lei ruota una progenie perduta, tra cui un giovanissimo Robert De Niro, il cui ruolo di figlio tossicomane anticipa, in bozzolo, le nevrosi scorsesiane dell’America post-vietnamita: uomini incapaci di espiare, corpi scissi, destinati alla rovina.
La regia di Corman è ruvida, essenziale, priva di psicologismo, e proprio per questo potentemente moderna: un cinema in cui i corpi sostituiscono le psicologie, e la violenza diventa linguaggio. La tenebra gotica che aveva dominato i suoi film degli anni Sessanta (da The Masque of the Red Death a The Tomb of Ligeia) si dirada, lasciando spazio a una luce spietata e solare, che invade gli spazi rurali e ne rivela l’anima bruciata. È il passaggio simbolico dal barocco dell’horror al minimalismo politico dell’exploitation: l’incubo non è più nel castello, ma nella provincia americana.
Sul piano storico, Bloody Mama rappresenta una rottura interna al sistema: è un film che agisce dall’interno della macchina hollywoodiana per sabotarla, come farà di lì a poco la generazione di Coppola, Scorsese e De Palma. Ma, a differenza di loro, Corman non cerca la legittimazione autoriale: il suo è un gesto istintivo, una rivolta estetica travestita da prodotto popolare. Da qui la sua ambiguità, e la sua forza.
A livello formale, il film combina l’urgenza exploitativa con un rigore quasi documentario: il montaggio serrato, la fotografia abbagliante, i contrasti cromatici che dissolvono ogni distanza morale tra azione e orrore. Persino i titoli di testa, accompagnati dall’ironica canzone “Bloody Mama”, suonano come una dichiarazione di poetica: il sangue e la madre, l’America e il suo inconscio.
Il clan dei Barker è un’opera sovversiva e visionaria, che nulla ha da invidiare alle più celebrate incursioni nel genere di Arthur Penn, Robert Aldrich o John Milius. Se quei registi hanno raccontato la violenza come tragedia o destino, Corman la mostra come natura, come energia anarchica e fondativa. E nel farlo, realizza, forse senza saperlo, uno dei film più lucidi e feroci della contro-Hollywood americana.