Il Chassidismo nasce, nella Polonia e nell’Ucraina del XVIII secolo, come un movimento interno all’ebraismo ashkenazita, una risposta spirituale e sociale a un lungo periodo di prostrazione. Le comunità ebraiche dell’Europa orientale, provate da persecuzioni, pogrom e dal trauma del fallimento messianico di Shabbetay Tzvi, vivevano una religiosità irrigidita: la Halakhà ridotta a meccanismo, lo studio della Torah a privilegio di pochi, la preghiera a rito privo di vita.
In questo clima di stanchezza collettiva, il Chassidismo emerse come tentativo di restituire immediatezza e calore al rapporto con D-o, non attraverso la speculazione intellettuale, ma attraverso l’esperienza.
Israel ben Eliezer, il Baal Shem Tov, diede forma a questa tensione nascente. La sua dottrina, più vissuta che sistematizzata, affermava che la santità non appartiene solo allo studioso ma a chiunque viva con sincerità. D-o non è lontano, ma presente nell’istante, nel gesto, nella parola. Il mondo, lungi dall’essere un ostacolo, è una trama sacra: ogni cosa racchiude una scintilla divina (nitzotz) da liberare attraverso la consapevolezza e la gioia.
Da questa visione prese forma la comunità chassidica, centrata non sul sapere ma sulla figura del tzaddik, il giusto, che funge da tramite della Shekhinà, la Presenza divina nel mondo.
La preghiera, il canto (niggun), la danza e la narrazione divennero mezzi di elevazione spirituale al pari dello studio. In questo modo il Chassidismo costruì una religiosità più accessibile e comunitaria, in cui la gioia e la spontaneità non erano in contrasto con la Legge, ma ne rappresentavano il risveglio interiore.
Accanto alla pratica nacque una vasta tradizione narrativa. Le storie dei tzaddikim, raccontate nei villaggi e poi raccolte in antologie, trasformarono l’insegnamento mistico in racconto popolare. Quei brevi episodi, insieme realistici e simbolici, rappresentavano una teologia narrata: il divino filtrava nella vita comune. Nei secoli successivi, questo patrimonio di racconti avrebbe nutrito la letteratura yiddish e la riflessione di autori come Martin Buber e Isaac Bashevis Singer, diventando una delle espressioni più originali della cultura ebraica dell’Europa orientale.
Il Chassidismo, tuttavia, non fu accolto unanimemente. In Lituania i Mitnagdim, guidati dal Gaon di Vilna, reagirono con fermezza. Temevano che la nuova enfasi sull’emozione dissolvesse i confini della Halakhà e riducesse la mistica a fervore. Da quella opposizione nacque un’altra forma di rinnovamento: un ritorno rigoroso allo studio talmudico, alla disciplina intellettuale e al controllo della soggettività religiosa.
Fu proprio da quella tradizione lituana che si sviluppò, nei secoli successivi, il pensiero ebraico dell’Ottocento e del Novecento: l’ebraismo della Haskalà, del sionismo, dell’ortodossia moderna e del razionalismo esegetico.
Così le due correnti, nate in opposizione, finirono per delineare le polarità costitutive dell’ebraismo moderno: da un lato l’esperienza e la devozione, dall’altro lo studio e la critica; da un lato il cuore, dall’altro l’intelletto.
L’eredità del Chassidismo non è tanto un sistema dottrinale quanto un modo di guardare il mondo: la convinzione che D-o non risieda solo nei cieli o nei testi, ma anche negli spazi minimi dell’esistenza nel lavoro, nella parola, nella fatica di ogni giorno.
 
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