Chris Spedding – Hurt (1977)
Chris Spedding è il classico eroe dimenticato del rock: chitarrista sopraffino, turnista di lusso, outsider per scelta o per sfortuna. Il suo album Hurt (1977) è un concentrato di stile, gusto e understatement che dimostra quanto il britannico avrebbe meritato di più. Ma il mondo della musica è pieno di talenti che restano nell’ombra, e Spedding sembra averci fatto pace da tempo.
Dopo l’exploit di Chris Spedding (1976), che conteneva il suo classico Motor Bikin’, Hurt arriva con un taglio ancora più diretto: una produzione secca, poche sbavature, un rock’n’roll essenziale e senza fronzoli. La chitarra è sempre in primo piano, elegante ma mai eccessiva. Il mix di punk, rockabilly e pop raffinato è la sua firma, e in Hurt si sente chiaro e tondo.
L’album parte con Wild in the Streets, pezzo dall’anima punk-blues che sembra anticipare gli Stray Cats. Silver Bullet ha quel groove da pub-rock, mentre Ain’t Superstitious rievoca atmosfere swamp con un mood alla Tony Joe White. E poi c’è Hurt by Love, un piccolo capolavoro nascosto, una ballata con chitarre che sfrigolano nel mix e un ritornello che resta in testa.
Spedding è il tipo di chitarrista che non ha bisogno di strafare. Zero assoli chilometrici, zero virtuosismi inutili: ogni nota è messa lì con chirurgica precisione. Il suo tocco è pulito, il suono è quello di chi sa far cantare la chitarra senza doverla violentare. E non è un caso che sia stato chiamato da gente come John Cale, Roxy Music e addirittura i Sex Pistols.
Se Hurt fosse uscito con un altro nome in copertina, forse oggi sarebbe considerato un cult. Ma Spedding è sempre rimasto un passo indietro rispetto ai riflettori, troppo sofisticato per il punk, troppo essenziale per il mainstream. Questo album è la dimostrazione che il rock’n’roll non ha bisogno di eccessi per essere letale: basta una chitarra, un buon songwriting e un po’ di veleno nella voce. Se non lo conosci, rimedia subito.