You Want It Darker è l’ultimo brano pubblicato da Leonard Cohen poco prima della sua morte nel 2016: un testamento spirituale in forma di preghiera, dove il poeta si rivolge a D-o con la parola biblica Hineni (“Eccomi”), dichiarandosi pronto all’incontro finale.
You Want It Darker non è un testamento nichilista, ma un vero e proprio midrash in musica, un dialogo radicale con D-o. Cohen, figlio di una tradizione ebraica viva e consapevole, guarda in faccia l’oscurità del mondo, la sofferenza personale, la malattia, ma anche la memoria storica del popolo ebraico, dalla Shoah alla diaspora, e riconosce che questo buio, in qualche modo, è voluto, permesso, inscritto nella logica stessa della creazione.
Nella Qabbalà luriana, infatti, l’oscurità non è soltanto assenza di luce, ma il risultato del tzimtzum, il ritiro divino che lascia spazio all’esistenza. E se l’oscurità ha una funzione, allora l’uomo non può che rivolgersi a D-o con la parola più radicale che la Bibbia conosca: Hineni. “Eccomi” — così rispondono Abramo all’Akedat Yitzchak, Mosè al roveto ardente, Isaia nella sua chiamata profetica. È la formula della disponibilità assoluta, della resa che non è resa alla disperazione, ma all’appello dell’Altro.
Quando Cohen canta Hineni, hineni, I’m ready, my Lord, egli si iscrive in quella stessa catena: l’uomo che, pur tremando, risponde. Non protesta come Abramo a Sodoma, non fugge come Giona, ma si offre. È un atto liturgico: quasi un Kaddish intonato da una voce solitaria che trasforma l’oscurità in preghiera.
Eppure, proprio perché ebreo, Cohen non cancella la tensione: sa che la voce dell’orante è anche accusa, che il dialogo con D-o implica sempre una quota di ribellione. Dire “Eccomi” non significa accettare tutto, ma esporsi totalmente all’appello divino, riconoscendo che anche nel buio più fitto la Shekhinà, la presenza divina, accompagna Israele e lo sostiene.
You Want It Darker diventa così un salmo moderno, una liturgia dell’estremo: accusa e resa, obbedienza e ironia, Kaddish e profezia. Non è la voce di un uomo rassegnato, ma di un ebreo che, alla fine della vita, osa rivolgersi a D-o con l’unica parola che resta, la più semplice e la più tremenda: Hineni.