1968, Los Angeles. Psichedelia elettrica, peso, trance. Heavy, debutto degli Iron Butterfly, è un viaggio ossessivo tra riff sporchi e organi in delirio. Non la delicatezza lisergica di San Francisco, ma una psichedelia industriale, quadrata, incombente. Doug Ingle modella suoni come ingranaggi, Danny Weis stratifica chitarre ferrose. “Unconscious Power” pulsa di groove robotico, “Iron Butterfly Theme” è una macchina che avanza, inarrestabile.
È proto-metal, ma soprattutto è The Bonniwell Music Machine prima del metal. Sean Bonniwell l’aveva già intuito: la psichedelia poteva essere ripetizione, ossessione, non solo sogno. The Bonniwell Music Machine (1968) era stato un manifesto, una trance elettrica fatta di chitarre compresse, ritmiche ossessive, tensione claustrofobica. Gli Iron Butterfly raccolgono quella visione e la spingono oltre: meno garage, più pesantezza, una struttura sonora che sembra già hard rock.
Niente divagazioni barocche, niente jam libere, solo costruzione geometrica del suono. Heavy non scorre, martella. Se i Music Machine sembravano il battito cardiaco di una fabbrica in delirio, gli Iron Butterfly trasformano quella pulsazione in un monolite. Psichedelia che diventa metallo liquido.