Five Leaves Left, pubblicato nel 1969, nasce già come oggetto anacronistico: un debutto che sembra ignorare del tutto la scena musicale da cui proviene, sottraendosi tanto all’ubriacatura elettrica del post-Beatles quanto alle prime derive psichedeliche inglesi. Registrato tra il 1968 e il 1969 con la supervisione di Joe Boyd, l’album si nutre sì della tradizione folk britannica, ma la distilla in una forma ulteriormente rarefatta, quasi estratta dalle profondità dell’interiorità più che dalla cultura del tempo. La collaborazione con Robert Kirby, amico di Drake dai tempi del Marlborough College, introduce orchestrazioni cameristiche che fungono da contrappasso alla fragilità del cantante, generando una tensione sottile fra intimità e solennità: è qui che il disco trova il suo peculiare equilibrio, un’oscillazione costante tra prossimità e distanza.
.Il finale è affidato a Fruit Tree, brano che sembra rivolgersi a un futuro che Drake intuisce senza nominarlo: la celebrità postuma come condanna, la percezione di un’opera destinata a essere riconosciuta solo quando la voce che l’ha generata non potrà più sostenerla. Non c’è compiacimento, nessun romanticismo dell’artista maledetto, solo la constatazione asciutta di una distanza insanabile tra l’opera e il mondo.
Così Five Leaves Left si impone come un debutto già definitivo, un disco che sfugge sia all’epoca che alla biografia del suo autore, perché ciò che articola non è una confessione, ma un modo di stare al margine: un equilibrio instabile tra quiete e inquietudine, tra presenza e dissolvenza, che continua a vibrare a distanza di decenni senza aver mai avuto bisogno di imporsi.
David Pacifici