First Utterance, esordio dei Comus, pubblicato nel 1971 su etichetta Dawn (etichetta undergroud della PYE), è uno di quei corpi sonori che sfuggono a ogni tassonomia, un organismo ibrido, deforme, che si dibatte ai confini del folk, del rito e della follia.
Formatosi nell’ottobre del 1969 (alcune fonti segnalano formalmente il 1970) a Bromley – sobborgo di Londra – grazie all’incontro tra i futuri fondatori Roger Wootton e Glenn Goring, entrambi all’epoca studenti presso il Ravensbourne College
Fin dall’inizio tra loro si sviluppò una forte passione per il folk britannico (in particolare artisti come John Renbourn e Bert Jansch) e per le sonorità più oscure e sperimentali del periodo, tanto che iniziarono a suonare in club folk locali cover degli The Velvet Underground.
Il nome “Comus” venne suggerito dall’amico e futuro manager Chris Youle, che propose sia un riferimento alla masque teatrale Comus (masque) di John Milton, sia alla figura mitologica greca Komos/Comus – incarnazione del caos e della baldoria.
Formatosi nell’ottobre del 1969 (alcune fonti segnalano formalmente il 1970) a Bromley – sobborgo di Londra – grazie all’incontro tra i futuri fondatori Roger Wootton e Glenn Goring, entrambi all’epoca studenti presso il Ravensbourne College
Fin dall’inizio tra loro si sviluppò una forte passione per il folk britannico (in particolare artisti come John Renbourn e Bert Jansch) e per le sonorità più oscure e sperimentali del periodo, tanto che iniziarono a suonare in club folk locali cover degli The Velvet Underground.
Il nome “Comus” venne suggerito dall’amico e futuro manager Chris Youle, che propose sia un riferimento alla masque teatrale Comus (masque) di John Milton, sia alla figura mitologica greca Komos/Comus – incarnazione del caos e della baldoria.
Così la band dopo aver dato alla luce First utterance, diventa il lato oscuro della controcultura britannica: un sabba pastorale dove il folk psichedelico implode in una liturgia ferina e pre-cristiana.
Se i Fairport Convention raccontavano la brughiera, i Comus la infestano.
Il loro non è il folk del racconto, ma quello del trauma primordiale, della foresta che non parla ma inghiotte.
Le voci si piegano in un delirio corale, le corde frusciano come rami, i violini si torcono come animali impalati, e la percussione diventa un battito cardiaco tribale che minaccia.
Siamo in un paesaggio acustico che sembra provenire da un altrove arcaico, in cui la melodia è già contaminazione, e la canzone, un esorcismo.
L’apertura, Diana, non è una canzone ma una caccia rituale: invocazione di una divinità pagana in forma di ninfomane sanguinaria.
The Herald è un requiem agreste, sospeso tra il sacro e l’allucinato.
Drip Drip è un crescendo di violenza erotica che si trasforma in trance collettiva: il linguaggio del folk portato al limite della dissociazione.
Ovunque si percepisce il genio disturbante di Roger Wootton, voce scorticata e mente lucidamente febbrile del gruppo, e il contributo di Bobbie Watson, che canta come una Sibilla ubriaca di incubi.
L’opera si iscrive in quella corrente che verrà poi chiamata “folk apocalittico”: una genealogia oscura che da The Incredible String Band e Third Ear Band conduce ai riti acustici di Current 93 e Dead Can Dance.
Ma First Utterance resta inclassificabile anche rispetto a quella genealogia: è un unicum per radicalità e dismisura.
Lì dove altri evocano l’Apocalisse, i Comus la incarnano, ne fanno un atto performativo, una drammatizzazione sonora della discesa nella selva dell’inconscio.
Non c’è nulla di “hippie” in questo disco. È una negazione del “peace and love”, una contro-Eden primitivo e carnale, dove la sessualità è una pulsione bestiale e la natura un luogo di colpa.
In un’Inghilterra ancora percorsa dal sogno psichedelico, First Utterance suona come la sua decomposizione rituale: il momento in cui il fiore si richiude su sé stesso e si trasforma in carne.
Difficile oggi immaginare un debutto tanto alieno e privo di compromessi. La produzione è scarna, quasi “documentaria”: tutto sembra registrato in presa diretta durante un rituale proibito.
Eppure, nella sua crudezza, il disco possiede una logica armonica interna, una matematica della dissonanza che lo avvicina più alla musica contemporanea che al rock.
Ogni frammento di melodia è subito sabotato, ogni bellezza è sospesa sull’abisso.
Un disco che, più che raccontare il male, lo mette in scena come un teatro arcaico, un sacrificio sonoro in cui l’ascoltatore è chiamato a partecipare.
E quando il silenzio ritorna, dopo l’ultima nota, non è la pace a restare, ma una sensazione quasi metafisica di perdita: come se la musica avesse appena aperto e richiuso, una porta su qualcosa che non dovremmo mai vedere.
David Pacifici