Viviamo in una cultura che ha fatto dello spazio la misura di tutto: il possesso, la delimitazione, l’appropriazione. L’identità stessa si costruisce come geografia di beni e confini. Paul Ricoeur aveva colto questa dinamica quando parlava di idem-identità come permanenza nello spazio, contrapposta alla ipse-identità, più fragile e temporale. La modernità ha privilegiato la prima: siamo diventati ciò che possediamo.
Ma l’ebraismo rovescia la prospettiva: non è lo spazio a custodire il senso ultimo, ma il tempo.
Lo Shabbat non consacra un luogo, ma una sospensione temporale. Pesach è memoria del passaggio, durante Sukkot si abita la precarietà… Non vengono eretti templi, ma il tempio è un calendario che diventa tessitura di significato. Persino l’attesa messianica non ha un luogo, ma un tempo: “ogni giorno” può essere quello dell’arrivo.
Abraham Joshua Heschel lo chiamava “tempio nel tempo”: il divino non è ciò che si fissa, ma ciò che si attraversa. Derrida, in altro linguaggio, avrebbe detto che il senso non è mai una presenza solida, ma una differenza che scivola nel tempo (différance).
In termini laici, questa intuizione critica appare oggi come una vera rivoluzione: vivere il tempo come dimora significa affermare che il senso non si accumula ma si incontra, non si possiede ma si attraversa.
L’ebraismo, così, diventa anche in chiave secolare una filosofia della resistenza: il tempo custodito e abitato come luogo del senso, che lo si chiami D-o o semplicemente dignità del vivere.