“Detour” (1945), diretto da Edgar G. Ulmer, è uno dei noir più radicali mai girati: un film poverissimo che trasforma la mancanza di mezzi, l’imprevisto e la fatalità in poetica visiva. Realizzato in pochi giorni e con un budget quasi nullo, Detour non elude i limiti produttivi li sublima, trasformandoli in tensione metafisica.
Ulmer, regista marginale e geniale, cresciuto nell’officina espressionista tedesca accanto a Lang e Murnau, trasferisce nell’America di serie B la lezione dell’UFA: luce e ombra diventano psicologia pura, il décor si riduce a una proiezione mentale. La strada americana, topos della libertà, si muta qui in trappola simbolica, spazio del destino e dell’errore.
La vicenda di Al Roberts (Tom Neal), pianista fallito travolto da una catena di incidenti e colpe, è narrata attraverso un flashback deformato e soggettivo, dove la voce off mente: un narratore inaffidabile che scava nella memoria fino a dissolverla.
Il film raggiunge la sua essenza nell’uso dello spazio claustrofobico e artificiale: interni compressi, esterni finti, retroproiezioni evidenti che diventano espressione del delirio più che difetto tecnico. Il risultato è un’atmosfera onirica e paranoica, una realtà spogliata di consistenza, dove ogni gesto è già condannato.
Il personaggio di Vera (Ann Savage) è la figura più violenta e innovativa del film: non semplice femme fatale, ma forza predatoria, ribaltamento dell’archetipo femminile noir. Savage la interpreta con una ferocia quasi animalesca, facendo del personaggio non un oggetto di desiderio ma un’emanazione della colpa maschile.
La celebre scena della morte di Haskell, risolta con un gesto rudimentale e perfetto, condensa l’intero film: il caso come destino, l’incidente come epifania morale. Detour non racconta una storia,  mette in scena l’impossibilità stessa di raccontarla.
Ulmer fa del noir una macchina perfetta: il buio non è un effetto, è la sostanza del mondo. In questo, il film anticipa il cinema postmoderno, dal Chinatown di Polanski ai Coen di Blood Simple: la realtà come simulacro, la verità come versione, il destino come struttura narrativa.
Un capolavoro assoluto: un film fantasma che dimostra come, nel cinema, la povertà possa essere anche una forma di rivelazione.