Film fantasmatico e inclassificabile diretto da John Parker, girato nel 1953 ma distribuito soltanto due anni dopo, dopo un travagliato percorso di censura e rimaneggiamenti. Opera unica e irripetibile, concepita quasi per caso — o per ossessione — a partire da un sogno raccontato a Parker dalla propria segretaria, e finanziata interamente con i soldi prestati dalla madre del regista.
Quello che ne risulta è un oggetto cinematografico non identificato: una discesa negli inferi della psiche e della città, in un skid row di Los Angeles che diventa proiezione allucinata del trauma. Il film segue, senza parole e senza respiro, il vagare di una donna tra strade spettrali, camere d’albergo sudicie, cimiteri urbani e club jazz da dopobomba — luoghi abitati da personaggi ambigui, deformi, sospesi tra eros e orrore.
“Dementia” è, in fondo, un noir trasfigurato, un incubo urbano che anticipa di oltre vent’anni l’universo disturbante e onirico di Lynch. Ma al contrario del suo erede, Parker lavora dentro il sogno, non lo racconta: lo costruisce con frammenti, gesti, ombre. Il bianco e nero vibra di tensione paranoica, di un erotismo represso e insieme viscerale, come se il desiderio stesso fosse un crimine.
Girato tra Hollywood e Venice, California, il film fu inizialmente bandito dal New York State Film Board nel 1953, poi distribuito nel dicembre 1955 e successivamente acquisito dal produttore Jack H. Harris, che nel 1957 ne curò una nuova versione — ribattezzata Daughter of Horror — aggiungendo una voce fuori campo (quella di Ed McMahon) che ne altera, ma non annulla, la potenza visiva.
La colonna sonora, firmata da George Antheil, amplifica la dimensione isterica del racconto, mentre in una scena compare, riconoscibilissimo, Shorty Rogers, figura chiave del jazz californiano, con la sua orchestra da incubo.
Pellicola disturbante, claustrofobica, intensamente erotica, “Dementia” è un esperimento psico-cinematografico che brucia di una follia lucida e di una libertà formale oggi impensabile.