All’inizio degli anni Ottanta, mentre New York è un organismo esausto ma ancora vitale, attraversato da blackout, disoccupazione e una scena artistica in piena mutazione, i Feelies arrivano dal New Jersey con un suono che sembra riflettere la città stessa: nervoso, ordinato, sull’orlo del collasso. Crazy Rhythms è il loro esordio, ma ha la sicurezza e la lucidità di un disco scritto dopo anni di esperimenti. È un debutto che non cerca di piacere, ma di definire un linguaggio.
Glenn Mercer e Bill Million costruiscono un mondo di precisione maniacale: il post-punk filtrato attraverso una logica quasi scientifica. Ogni pezzo si muove come un meccanismo perfetto, teso fino allo spasimo, ma mai privo di vita. “Fa Cé-La” e “Loveless Love” sono mantra elettrici, canzoni che corrono in avanti con la disciplina di un metronomo impazzito; la loro versione di “Everybody’s Got Something to Hide Except Me and My Monkey” trasforma l’euforia beatlesiana in un esercizio di claustrofobia ritmica.
Ascoltato nel contesto del 1980, Crazy Rhythms è l’altra faccia della New York post-punk: dove i Talking Heads elaborano l’intellettualismo e James Chance il caos, i Feelies scelgono la nevrosi controllata, la tensione domestica di chi vive in un sobborgo e sogna la città come una geometria sonora. Il risultato è un disco ipnotico e asimmetrico, dove ogni nota sembra trattenuta prima di esplodere.
La sua influenza sarà enorme: senza Crazy Rhythms non esisterebbero il jangle pop, gli R.E.M. degli esordi, né l’indie rock più introverso dei decenni successivi. Ma al di là del suo peso storico, resta un’esperienza di pura elettricità mentale — un album che suona come un pensiero ossessivo, come la notte americana osservata da una finestra illuminata, quando tutto è immobile eppure vibra.