Ci sono dischi che nascono già in dissolvenza, come se la loro esistenza fosse un ultimo respiro. Afghanistan dei Q’65 appartiene a questa categoria: non un manifesto, ma un addio. Pubblicato nel 1970, quando la febbre beat olandese si era già consumata nei riflessi acidi della psichedelia, il disco è la cronaca di una metamorfosi, da ruggito garage a trance visionaria, da rabbia giovanile a inquietudine adulta.
I Q’65, nati all’Aia a metà degli anni Sessanta, erano stati tra i protagonisti del Nederbeat, insieme ai Golden Earring e ai Outsiders: figli minori dei Rolling Stones, ma più sporchi, più nordici, più umidi di nebbia e asfalto.
In Afghanistan, però, il loro R&B si dilata, si sfibra, si fa esperienza allucinata: “We Are Happy” suona come un ossimoro cantato da chi non crede più alla felicità; “Night” è una discesa lenta, quasi lisergica, dentro una notte che sembra non finire mai; la “Rock ’n Roll Medley” finale, lunga, ruvida, sfiatata, è una dichiarazione d’amore e di morte per un genere ormai esausto.
Il titolo stesso, Afghanistan, non ha nulla di geopolitico: è un simbolo, un altrove, un deserto interiore.
In quella parola esotica si condensa il sogno e la disillusione di un’intera generazione europea: ragazzi che avevano creduto nella rivoluzione e si ritrovano, pochi anni dopo, in una deriva di chitarre slabbrate, amplificatori feriti e voci che cercano un’uscita.
C’è, in tutto il disco, una malinconia geografica: l’Olanda dei canali e della pioggia diventa paesaggio mentale, confine tra Londra e il nulla. I Q’65 non cercano la perfezione ma la sopravvivenza del suono, la sua onestà ruvida, la sua bellezza imperfetta.
Afghanistanè una reliquia viva, un frammento di elettricità spirituale.
Riascoltarlo oggi significa sentire la voce di un’Europa che, per un attimo, credette che bastassero tre accordi per cambiare la storia e che nel momento stesso in cui lo capì impossibile, trovò la propria verità più profonda.