Con Una battaglia dopo l’altra Paul Thomas Anderson sembra inseguire l’ombra del proprio mito pynchoniano senza più crederci davvero. Dopo Vizio di forma, che traduceva l’anarchia del romanzo in una deriva psichedelica piena di ironia e malinconia, questo nuovo film appare come il suo negativo spento: ordinato, compunto, sorprendentemente lineare. Là dove Pynchon costruiva una struttura centrifuga, un labirinto di segni in lotta tra paranoia e grazia, Anderson sceglie la compostezza: tutto scorre, tutto torna, nulla sfugge. Il caos, vero protagonista del mondo pynchoniano, qui è addomesticato, reso estetica del disordine, non più linguaggio ma ornamento.
La fotografia, impeccabile, sterilizza l’immaginazione; la partitura di Greenwood, falsamente disturbante; e il montaggio, anziché frantumare, disciplina. Il risultato è un film che non vibra mai davvero, prigioniero della propria eleganza. Anderson sembra osservare il disastro da lontano, con la freddezza di chi ne teme la vertigine. Se Vizio di forma rideva nel caos, Una battaglia dopo l’altra si limita a illuminarlo, e nel farlo, lo svuota.
È un film intelligente, sì, ma senza rischio: un film che parla della paranoia mantenendosi al riparo dal suo contagio. Forse la sua vera “battaglia” è proprio questa: quella di un autore che tenta ancora di evocare Pynchon, ma da un territorio dove il caos non inquieta più, si cita soltanto.
David Pacifici