Qualcuno mi ha chiesto la differenza tra gnosticismo e Qabbalà ebraica. Ho provato a fare una sintesi di quelle che sono le mie conoscenze, per quanto parzali e inevitabilmente filtrate dalla mia sensibilità.
Non prendetela troppo per buona, ma forse può servire come spunto di riflessione.
Esiste un rapporto profondo ma problematico tra Qabbalà e gnosticismo, una parentela che si manifesta nelle strutture simboliche, nelle cosmogonie e nelle tensioni spirituali, ma che si risolve in due esiti teologici opposti.
Entrambe le tradizioni immaginano la realtà come un sistema stratificato, composto da livelli o emanazioni che collegano l’infinito al finito: gli gnostici parlano di eoni, i qabbalisti di sefirot.
In entrambi i casi, il cosmo non è dato in modo lineare, ma si dipana come una serie di veli che separano l’essere umano dalla fonte divina. Inoltre, sia lo gnosticismo che la Qabbalà condividono la visione di una frattura originaria: nello gnosticismo si trtta della caduta di un principio femminile, Sofia, che genera per errore il mondo materiale; nella Qabbalà luriana troviamo lo “shevirat haKelim”, la rottura dei vasi che non riescono a contenere la luce infinita di D-o. In entrambe le visioni, la creazione è dunque un atto incompleto, una lacerazione da riparare.
Anche il concetto di conoscenza come via di salvezza rappresenta un terreno comune: la gnosi, nello gnosticismo, è una rivelazione interiore che emancipa l’anima dal carcere del corpo e del mondo; nella Qabbalà, lo studio mistico e la pratica delle mitzvot permettono il tikkun, la riparazione del mondo e il riavvicinamento alla fonte divina.
Ma qui si aprono le differenze decisive. Il mondo, per lo gnostico, è intrinsecamente malvagio, generato da un dio inferiore, il demiurgo; per il qabbalista, invece, il mondo è un’espressione imperfetta ma ancora colma di divinità, una creazione in cui la luce di D-o si nasconde ma non si assenta. Lo gnostico rifiuta la legge, perché vede nel nomos un’ulteriore prigione; il qabbalista, al contrario, fa della Torah e delle mitzvot la chiave per trasformare la realtà: non fuga ma fedeltà, non evasione ma riparazione. Anche l’antropologia è diversa: lo gnostico si crede un eletto solitario, destinato a salvarsi a prescindere dal mondo; il qabbalista agisce per il bene collettivo di Israele e del cosmo intero, e la sua ascesa interiore è sempre un’azione nel mondo, non contro il mondo. Come ha mostrato Scholem, la Qabbalà ha metabolizzato certe tensioni dello gnosticismo: l’angoscia cosmica, la sete di pienezza, la mistica della luce, ma le ha riorientate dentro un quadro di fedeltà radicale all’unità divina e alla responsabilità etica. Moshe Idel, andando oltre Scholem, ha sottolineato che la Qabbalà non è una teologia dell’evasione ma un’energetica della trasformazione, dove il corpo, il rito e la linngua diventano strumenti di risalita.
La Qabbalà non è gnosticismo, ne raccoglie l’eco, ma la trasforma in una teolgia dell’immanenza e dell’azione.
Se lo gnosticismo sogna di fuggire dal mondo, la Qabbalà sogna di riscattarlo, di far emergere dal frammento la luce nascosta dell’Uno.
David Pacifici