In questi giorni mi sorprendo spesso a pensare a Erich Auerbach: la sua figura di studioso esule, filologo, ebreo secolare tedesco costretto a lasciare la sua terra durante il nazismo, trapiantato quasi per caso a Istanbul, lontano dalle biblioteche monumentali, dai maestri e dai colleghi, isolato eppure non vinto.
È da quella condizione liminale, un margine geografico e insieme esistenziale, che nasce Mimesis, un libro che sto rileggendo e approfondendendo in questi mesi, che non è soltanto un capolavoro di filologia e comparatistica, ma anche la testimonianza che la cultura può sopravvivere al naufragio della storia.
Mi colpisce oggi, forse più che allora, il paradosso di quella scrittura: senza strumenti, senza un contesto che lo sostenesse, Auerbach riesce a comporre un affresco dell’intera tradizione occidentale, dalle forme solenni dell’epica omerica alle fratture narrative dei Vangeli, dal realismo di Dante alla frammentarietà moderna. Non è solo un gesto erudito, ma un atto di resistenza: guardare l’Occidente dall’Oriente, guardare l’identità culturale europea dal punto di vista di chi ne è stato espulso, e dunque coglierne la trama più segreta.
Per me questo è commovente e vertiginoso al tempo stesso: l’idea che l’esilio, invece di ridurre lo sguardo, lo allarghi; che la perdita di una patria costringa a cercarne una più vasta, nei testi, nella lingua, nella memoria condivisa delle forme. In Auerbach, l’estraneità diventa metodo, la distanza diventa chiarezza.
E forse è questo che ci parla ancora, in un’epoca di smarrimento, di violenza e di odio: il fatto che la marginalità possa essere una fonte di rivelazione, che il pensiero più duraturo nasca non dalla stabilità ma dall’instabilità, dal senso di provvisorio.

Mimesis non è solo una storia della rappresentazione della realtà, ma anche il diario segreto di un uomo che, privato di tutto, ha saputo tenere in mano il filo dell’umanità.

David Pacifici