Quando nel maggio del 1966 uscì il primo LP degli Small Faces, la scena musicale britannica stava vivendo un momento di transizione: la furia R&B dei primi beat-group londinesi si stava raffinando in forme più pop, ma nei club del circuito mod si respirava ancora quell’urgenza viscerale che aveva spinto intere bande di ragazzi a vestirsi con eleganza ossessiva e a consumare notti infinite al ritmo di soul e rhythm & blues importato da oltreoceano. Gli Small Faces, guidati dal carismatico Steve Marriott, voce abrasiva e chitarra feroce, e dal bassista Ronnie Lane, incarnavano meglio di chiunque altro lo spirito di quel movimento: classe estetica, aggressività sonora e radici profondamente innestate nel linguaggio nero.
Il disco d’esordio, intitolato semplicemente Small Faces, è un colpo in faccia: un suono violento, serrato, esplosivo, che non concede tregua. A differenza di molte band coeve che si limitavano a riproporre cover di successo americano, qui l’energia mod viene tradotta in scrittura originale: pezzi come “Whatcha Gonna Do About It” o “Sha-La-La-La-Lee” (quest’ultimo in realtà imposto dall’etichetta e da loro stessi detestato, ma diventato un singolo clamoroso) mostrano la capacità di fondere il groove del soul con la compattezza rock inglese, anticipando di fatto la grammatica che porterà, anni dopo, al punk.
Tecnicamente, la forza del disco sta nella combinazione di Marriott voce graffiante, capace di modulare registri da Otis Redding bianco, e della sezione ritmica Kenney Jones (batteria) e Lane (basso), implacabile nella precisione ma sempre elastica, come se stesse dialogando direttamente con il soul di Memphis o con il beat di Motown. Il tastierista Ian McLagan, entrato in formazione poco prima della registrazione, aggiunge l’ organo Hammond che accentua il carattere urbano dei brani, proiettandoli in uno scenario tipicamente mod: luci al neon, Vespe cromate, abiti sartoriali e tensione di strada.
La radice nera del disco non è un semplice travestimento stilistico: si avverte nella costruzione dei riff, nel modo in cui Marriott fraseggia con aggressività gospel, nella propensione a portare il ritmo in primo piano, quasi fosse l’unica cosa che conta. È musica fisica, corporea, da ballare e da vivere, molto più che da ascoltare: una vera colonna sonora per le notti mod del ’66.
E tuttavia, nella sua energia brutale, si intravedono già i germi di una trasformazione: i brani originali di Lane e Marriott dimostrano che il gruppo non è solo una band da club, ma possiede un talento di scrittura capace di maturare. Questa crescita si manifesterà di lì a poco con la svolta psichedelica di Ogden’s Nut Gone Flake (1968), capolavoro visionario che ridefinirà completamente i loro orizzonti estetici. Ma per capire la portata di quella metamorfosi bisogna passare attraverso questo primo album: un atto di fondazione, rabbioso e trascinante, che sancisce l’identità degli Small Faces come band super-mod, ponte ideale tra il soul afroamericano e la nascente sensibilità britannica post-beat.
Small Faces è uno degli esordi più potenti del rock inglese: un disco che brucia di gioventù, arroganza e vitalità collettiva, in cui il suono nero diventa linguaggio universale e arma di affermazione generazionale. Violento, sfrontato, febbrile: un manifesto mod travestito da album pop, e proprio per questo un tassello imprescindibile nella storia del rock degli anni Sessanta.