Girato in 16mm, gonfiato a 35, Faces è il film che più di ogni altro definisce l’estetica e la furia di Cassavetes. Un film vivo, sudato, nervoso, girato con la presa diretta e l’improvvisazione come unica sceneggiatura possibile. Diciassette ore di pellicola, ridotte a 124 minuti di verità incontrollata.
Una coppia borghese americana si scompone sotto la lente spietata del regista: notti di vino, risate isteriche, pianti senza vergogna, amanti, prostitute, riconciliazioni impossibili. Succede tutto e non succede niente. È la vita colta nel momento in cui smette di recitare e comincia a farsi carne.
Cassavetes filma i suoi personaggi come un antropologo e un innamorato insieme. La macchina da presa non osserva: respira con loro, trema, si avvicina troppo. Faces è il contrario del cinema levigato di Hollywood: è un film sul volto umano come campo di battaglia, sul bisogno disperato di essere visti, toccati, creduti.
Gena Rowlands e Lynn Carlin sono splendide: fragili e feroci, autentiche fino all’imbarazzo. Ogni smorfia, ogni lacrima, ogni risata è reale. La fotografia in bianco e nero, quasi espressionista, cattura i pori, il sudore, la stanchezza. C’è un’ansia fisica che attraversa il film, una tensione costante che non si risolve mai. Sullo sfondo, l’America alla fine degli anni Sessanta: confusa, disillusa, sull’orlo di una crisi morale.
Un film meraviglioso e doloroso, un atto di fede nel potere del cinema come verità, come esperienza diretta dell’animo umano.