Il Nome impronunciabile di HaShem non è un divieto: è un atto di libertà.
L’ebraismo intuisce ciò che la semiotica e la psicoanalisi scopriranno millenni dopo: che il linguaggio vive solo a condizione di non colmare mai la distanza tra il segno e il reale.
Ogni parola che pretende di dire tutto diventa idolo. Ogni silenzio che protegge il limite diventa legge.
Il Tetragramma, sottratto alla voce, fonda il simbolico come campo del possibile. Non è l’assenza di D-o, ma la sua forma più esatta: quella che resiste alla presa del linguaggio. Lacan avrebbe detto che il Nome è un significante mancante, la mancanza che struttura il soggetto e lo separa dal godimento assoluto della parola.
Il trattino di “D-o” — quella ferita grafica apparentemente minima — è l’eco di questo sapere antico: non si può possedere ciò che si nomina, non si deve mai possedere ciò che si ama.
L’ebraismo, nel suo gesto più radicale, non tace per pudore ma per precisione. Trasforma il silenzio in forma, la mancanza in metodo, la distanza in spazio abitabile.
Nel Nome che manca, l’uomo si scopre non padrone del mondo ma interlocutore del suo enigma. E forse, in quell’interstizio tra le lettere, in quel respiro sospeso che impedisce alla parola di chiudersi, nasce la sola libertà che meriti questo nome.
 
 
David Pacifici