Uno dei vertici assoluti del cinema europeo degli anni Sessanta: un congegno narrativo di precisione geometrica, dove romanticismo e criminalità, riscatto e disillusione, si fondono in una partitura di gesti minimi e silenzi assoluti. È insieme elegia e eleganza: film di sublime ferocia e glaciale malinconia, che fa del tempo sospeso e della sospensione morale il proprio respiro. Melville costruisce un universo rarefatto, interamente regolato da codici di lealtà e tradimento, dove ogni movimento, ogni sguardo, ogni dettaglio sembra pesato come in un rituale. Le tematiche, onore, colpa, vendetta sono quelle canoniche del polar, ma lo stile ne rovescia la convenzione: l’azione si dilata, si svuota, diventa gesto puro, icona, negazione del pathos e sua sublimazione. L’incedere del racconto è lento, ipnotico, scandito da ambienti deserti, appartamenti spogli, casali in rovina: luoghi della memoria più che dello spazio, che riflettono il vuoto interiore dei personaggi. Tutto è ridotto all’essenziale, secondo la poetica melvilliana della sottrazione un’estetica ascetica, rituale, dove l’emozione nasce dal silenzio e dall’ellissi.
Lino Ventura, in stato di grazia, presta al protagonista una gravità magnetica, una tensione interiore che si fa carisma e condanna. Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide è, più che un film, una meditazione sull’inevitabile: sulla morte come forma ultima di coerenza. Un capolavoro assoluto, di quelli che non si commentano ma si attraversano, in silenzio.