All’inizio degli anni Quaranta, qualcosa si incrina nel lucido ingranaggio dell’industria hollywoodiana. Il cinema poliziesco, fino ad allora saldo nelle sue regole morali e narrative, comincia a oscurarsi.
Le luci si abbassano, i contrasti si fanno più netti, i protagonisti non sono più eroi ma figure smarrite, ambigue, intrappolate in trame che si avvitano su se stesse tra flashback, sogni febbrili e violenze dal retrogusto sadico. È come se l’inconscio del secolo, con la sua guerra, le sue nevrosi, le sue disillusioni,  si fosse insinuato nel cuore della dream factory.
La critica francese, la prima a riconoscere questa metamorfosi, le diede un nome destinato a restare: film noir. Un cinema improvvisamente nero, claustrofobico, in cui la luce non redime più ma rivela la colpa. Con il tempo, quel termine è diventato un’etichetta di stile, un feticcio estetico; ma all’origine indicava una frattura, un malessere profondo nel cuore della modernità spettacolare.
Questo libro indaga i percorsi sotterranei attraverso cui il cinema criminale americano ha vissuto la sua stagione classica del noir: un periodo in cui lo spettatore, disorientato, non poteva più fidarsi del protagonista, costretto a identificarsi con un assassino o un fallito, mentre le immagini, oblique, deformate, irrimediabilmente ambigue, scavavano nelle zone d’ombra della coscienza collettiva.
È il cinema di Humphrey Bogart e di Rita Hayworth, di Fritz Lang e Billy Wilder, di Orson Welles e del giovane Stanley Kubrick: da Il mistero del falco a Rapina a mano armata, passando per decine di B-movie dimenticati che hanno ridefinito il linguaggio visivo del Novecento.
Un viaggio attraverso i labirinti dell’anima hollywoodiana, dove il poliziesco si confonde con il melodramma, la suspense con l’incubo, la morale con la colpa.
Per comprendere, finalmente, da dove proviene l’oscurità del noir di oggi, e perché continua a parlarci, come un riflesso in uno specchio incrinato.