Il secondo album dei Music Machine, intitolato The Bonniwell Music Machine (1968), è una delle opere più sottovalutate dell’intera stagione psichedelica americana: un disco che, pur apparentemente figlio del garage rock più viscerale, ha in sè i germi della rottura, la voce magnetica di Sean Bonniwell si impone come un principio ordinatore e insieme disgregante, una presenza quasi sciamanica che già nel ’66 aveva anticipato per densità timbrica e tensione lirica, il carisma di Jim Morrison. Non è solo un’analogia vocale o estetica: è la stessa concezione del canto come trance e del suono come spazio interiore, come veicolo di rivelazione e di smarrimento.
The Bonniwell Music Machine nasce da una necessità: liberare la band dalle convenzioni del successo momentaneo di Talk Talk e restituirle la profondità che quel singolo, per quanto geniale, non poteva contenere. Bonniwell riscrive il linguaggio del garage introducendo dissonanze jazzistiche, strutture irregolari, improvvisi vuoti sonori che rendono il disco un continuo campo di tensione. Il risultato è un suono stratificato, febbrile, che oscilla tra l’eros e la nevrosi, tra il misticismo e la claustrofobia. Laddove molte band psichedeliche californiane cercavano l’espansione sensoriale, i Music Machine inseguono la contrazione, la vertigine introspettiva: il loro trip è verso l’interno, non verso l’alto.
L’impianto sonoro è di un’intelligenza impressionante: chitarre taglienti ma controllate, percussioni ipnotiche, basso vischioso e cupo, tastiere ridotte a lampi intermittenti. Tutto converge sulla voce di Bonniwell, che non canta: interroga, seduce, minaccia.
Il suo baritono cavernoso, con quelle inflessioni che sembrano provenire da un altare sotterraneo, fa pensare al Morrison di Strange Days, ma con una lucidità più analitica, quasi ascetica. Dove Morrison invoca i demoni della carne, Bonniwell studia le geometrie dell’abisso.
È un disco in cui il concetto di “psichedelia” si fa consapevole della propria artificiosità: gli effetti non servono a simulare l’allucinazione, ma a smontarla. Ogni riverbero è calcolato, ogni distorsione è gesto dialettico, ogni pausa è una ferita nel tessuto del suono. Il gruppo raggiunge un equilibrio raro tra disciplina e furia: una tensione che trasforma la canzone pop in un’esperienza quasi metafisica.
L’importanza dei Music Machine, spesso confinata alle note a piè di pagina della storia del rock, è invece cruciale: furono i primi a concepire la psichedelia come linguaggio della coscienza alienata, non come fuga ma come autopsia dell’anima moderna. Senza il loro rigore e la loro ossessione non ci sarebbe stato il crepuscolo dark dei Doors, né la paranoia lucida dei Velvet Underground, né l’angoscia metafisica dei primi Stooges.
The Bonniwell Music Machine non è un disco grandioso, una camera d’eco dove il rock si ascolta pensare. E in quell’ascolto, in quella voce che sembra farsi specchio e vertigine insieme, c’è tutta la grandezza e la solitudine dei Music Machine: una band che ha avuto il coraggio di guardare troppo a fondo nel proprio suono e, per questo, di restare intrappolata nel suo splendore oscuro.