Il fantasma del neorealismo nell’era postmoderna
“L’imperatore di Roma” di Nico D’Alessandria (1987) è una di quelle opere che, più che appartenere al cinema, sembrano abitarne il margine, come un detrito o una reliquia radioattiva di un’epoca finita. Girato con mezzi di fortuna, in condizioni di totale precarietà produttiva, il film si impone non nonostante la sua povertà tecnica, ma attraverso di essa: il degrado materiale diventa linguaggio, la miseria diventa metodo.Il protagonista, Gerry Sperandini, un tossicodipendente abbandonato ai margini di una Roma spettrale e disabitata, è la figura emblematica di un’umanità post-neorealista, che ha perso qualsiasi fiducia nell’orizzonte collettivo o politico.
D’Alessandria rifiuta ogni residuo di moralismo — sia quello pasoliniano, intriso di pietas e di denuncia, sia quello implicitamente redentivo di Amore tossico di Caligari — per sostituirlo con un sguardo entomologico, freddo e implacabile, che seziona la rovina senza più giudicarla.In questo senso, il film può essere letto come un esperimento di anti-narrazione urbana, un itinerario senza teleologia né catarsi. Gerry vaga per una Roma che non è più la “città eterna”, ma una topografia mentale in decomposizione: una Roma svuotata di simboli, ridotta a pura spazialità entropica, in cui il soggetto è definitivamente alienato. La macchina da presa accompagna questo movimento come un occhio clinico, incapace di empatia ma ossessionato dal dettaglio della disgregazione.La definizione di Morandini — «il neorealismo tornò nel cinema italiano degli anni ’80 come un fantasma espressionista» — coglie perfettamente la natura di quest’opera: un neorealismo defunto che si reincarna in forma di spettro, contaminato dalle estetiche post-punk e dalle derive psichiche della tarda modernità.
Le musiche tardo new wave, fredde e sintetiche, amplificano questa sensazione di sospensione ipnagogica: non illustrano, ma contaminano l’immagine, trasformandola in una trance urbana, un delirio percettivo.Il film, in definitiva, si configura come un atto di resistenza estetica e antropologica: una negazione radicale delle logiche consolatorie del racconto, una sfida alla stessa idea di cinema come dispositivo empatico. L’imperatore di Roma non è un film “su” la marginalità, ma un film marginale in sé, prodotto e condotto ai limiti del linguaggio cinematografico.Nico D’Alessandria, cineasta invisibile e tragicamente dimenticato, firma con quest’opera un gesto di pura insubordinazione: un film che non cerca lo spettatore, ma lo mette alla prova; un frammento di realismo terminale che, a distanza di decenni, continua a sprigionare una potenza disturbante e inclassificabile.